L’ulteriore apertura agli investimenti. In particolare, nella giornata di venerdì la Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma e il Ministero del commercio cinese hanno rivisto la cosiddetta negative list, cioè l’elenco degli investimenti proibiti alle aziende straniere e cinesi introdotta nel 2018 e da allora periodicamente aggiornata. L’ultima revisione della lista ha ristretto ulteriormente gli investimenti vietati dall’amministrazione cinese, sia per gli investitori locali che per quelli esteri. Una sorta di “dono” agli investitori,che rappresenta un forte segnale di apertura nel settore dei servizi e della finanza. Anche le tempistiche non sono casuali, dato che la Commissione ha rilasciato l’aggiornamento proprio nel giorno del nuovo incontro in conference call tra i negoziatori del Trade Pact tra USA e Cina, rispettivamente Katherine Tai e Liu He. Si potranno formulare osservazioni fino a giovedì prossimo, quando la lista diventerà definitiva. Ciò che conta è che tutto ciò che non è incluso nella lista può essere oggetto di un investimento. La Cina ha superato in tal modo la vecchia classificazione degli investimenti. In ogni caso, coerentemente con gli ultimi sviluppi, il Governo cinese ha introdotto il divieto di investire in criptocurrency e nei media privati: una novità per quanto riguarda le aziende di Pechino.
I colloqui USA-Cina. Come detto, ha sorpreso la tempistica dipubblicazione della Negative List: resa pubblica proprio nel giorno dell’incontro virtuale tra il vicepremier cinese, Liu He, e la rappresentante commerciale degli Stati Uniti, Katherine Tai. Un summit molto atteso da Washington, che lo aveva definito come un “test” per capire se l’impegno diretto possa aiutare a risolvere il problema delle pratiche commerciali di Pechino. L’incontro virtuale di venerdì si inserisce nel quadro dei colloqui avviati a Zurigo tra i vertici della diplomazia di Washington e Pechino. Si è trattato del secondo incontro tra i due negoziatori, dopo che la Tai aveva annunciato in un discorso che la Casa Bianca avrebbe riavviato un processo per eliminare alcune tariffe dell’era Trump, anche se l’amministrazione cinese punta all’abolizione totale delle tariffe. Un dialogo che sembra essere ripartito stando alla dichiarazione congiunta a margine del summit: “durante il loro scambio di opinioni, i due negoziatori hanno riconosciuto l’importanza delle relazioni commerciali bilaterali e l’impatto che hanno, non solo sugli Stati Uniti e sulla Cina, ma anche sull’economia globale”. In merito alle novità della lista aggiornata, va fatta qualche annotazione in merito al settore dei servizi finanziari. Infatti, il nuovo strumento permetterà agli stranieri di richiedere conti in titoli e future, nonché un’apertura alle qualifiche per la fornitura di servizi di consulenza su titoli e investimenti a termine. Per le aree non incluse nell’elenco, i fornitori di servizi nazionali ed esteri dovranno avere condizioni di parità e godere di pari accesso al mercato nel porto di libero scambio di Hainan. Secondo Pechino il livello di apertura del commercio di servizi transfrontalieri ad Hainan va oltre gli impegni sottoscritti dalla Cina per entrare nell’Organizzazione mondiale del commercio, essendo persino superiore a quello dei principali accordi di libero scambio firmati.
La questione Taiwan. A sfatare questa atmosfera distensiva a livello economico, però, interviene prepotentemente la tensione tra Taipei e Pechino. Come detto, nella giornata di sabato Xi Jinping, seppur i toni più moderati, è tornato a porre la questione della riunificazione di Taiwan con lo stato cinese. Il Presidente cinese ha anche espresso la volontà di perseguire tale obiettivo attraverso un processo pacifico e condiviso, utilizzando la formula del “Un paese, due sistemi” come fatto per Hong Kong. Dunque, concedere un certo grado di autonomia all’isola del pacifico, mantenendo in ogni caso l’unità nazionale. Lo stesso Xi Jinping, tuttavia, ha scaricato le colpe del processo di riunificazione su Taiwan: “Il secessionismo indipendentista di Taiwan è il più grande ostacolo alla riunificazione del paese, una grave minaccia al rinnovamento nazionale. Nessuno deve sottovalutare la ferma determinazione del popolo cinese, la sua ferma volontà e la sua forte capacità nel difendere la sua sovranità nazionale e la sua integrità territoriale”.
La risposta di Taiwan. Naturalmente, la replica di Taiwan non si è fatta attendere e nella giornata di domenica la Presidente, Tsai Ing-Wen, ha la volontà taiwanese a non rinunciare al proprio modello democratico: “Nessuno può costringere Taiwan a seguire il percorso che la Cina ha tracciato per noi. Non agiremo avventatamente, ma non ci possono essere illusioni che il popolo taiwanese si pieghi alle pressioni”. La Presidente ha invitato Pechino a dialogare alla pari, richiamando i rapporti che il Paeseha con Stati Uniti, Giappone e Unione Europea e ribadendo che eventuali azioni contro l’isola di Taiwan avrebbero ripercussioni a livello globale. Un messaggio che ha particolarmente irritato Pechino. Dopotutto, che la questione taiwanese sia bollente non lo si scopre oggi, rappresentando un punto di frizione netta tra Washington e il dragone cinese. Le provocazioni arrivano da ambo le parti. La Cina nel corso del 2021 ha violato lo spazio aereo taiwanese ben 672 volte, spesso con aerei militari capaci di trasportare anche testate nucleari. Inoltre, le istituzioni di Taipei dicono che entro tre anni il dragone sarà in grado di invaderla e inglobarla con la forza. Dall’altro lato c’è il fatto che l’esercito di Taiwan da oltre un anno usufruisce delle nozioni di addestramento dei generali americani, cosa che ha fatto storcere il naso a Pechino che si sente minacciata da tali manovre.
Equilibrio. In mezzo a questo intreccio di tensioni e pressioni ci sono gli Stati Uniti guidati di Joe Biden. Il Presidente americano ha sempre ammesso di voler avviare un nuovo corso con le istituzioni cinesi, anche se fino ad ora l’atteggiamento non è stato troppo dissimile da quello dell’amministrazione Trump. La verità è che l’amministrazione americana ha necessità di trovare un punto di equilibrio fra determinati timori interni e l’opportunità di un nuovo dialogo. Nell’America odierna vive tanto nelle istituzioni quanto nei cittadini una vera e propria sinofobia, un vero e proprio timore nei confronti della Cina paragonabile in parte a quello che c’era per l’URSS. Da un punto di vista politico può essere anche utile. In un momento di divisione politica e sociale interna alla società statunitense, trovare un nemico esterno comune può essere utile a Biden per ricompattare la nazione. Da un punto di vista pratico, farsi trascinare da tale visione rischia di trascinare gli americani in una situazione ancor più complicata e controversa. Infatti, il perenne paragone con la Russia sovietica non è così veritiero e utile, dato che Pechino rappresenta un avversario a livello sistemico, economico e sociale molto diverso dall’Urss della Guerra Fredda. Inoltre, rifiutare aprioristicamente le aperture cinesi sul fronte economico e commerciale, significherebbe gettare al vento un’ottima leva diplomatica utile a riallacciare rapporti e raggiungere un’intesa utile a gestire meglio processi e situazioni controverse, come il caso di Taiwan. Toccherà a Biden comprendere quali siano le prossime mosse da porre in essere, solo una cosa appare chiara: farsi condizionare da un estremo timore nei confronti del dragone cinese è il peggior modo per avviare un dialogo con Pechino e rischia nel medio periodo di complicare ancor di più un quadro già estremamente complesso.
Nella giornata di Sabato il Presidente cinese, Xi Jinping, era tornato a parlare della questione riguardante Taiwan, ribadendo l’impossibilità di una secessione dell’isola dal controllo cinese e la volontà di Pechino di annetterla. Un intervento meno duro rispetto ad altri fatti nei mesi precedenti sullo stesso punto, si tratta comunque un elemento di frizione, specialmente con gli Stati Uniti che da oltre un anno starebbero addestrando l’esercito taiwanese. L’atteggiamento del governo cinese è comunque controverso, dato che proprio in questi giorni sono state fatte aperture economiche distensive nei confronti degli investitori stranieri.
L’ulteriore apertura agli investimenti. In particolare, nella giornata di venerdì la Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma e il Ministero del commercio cinese hanno rivisto la cosiddetta negative list, cioè l’elenco degli investimenti proibiti alle aziende straniere e cinesi introdotta nel 2018 e da allora periodicamente aggiornata. L’ultima revisione della lista ha ristretto ulteriormente gli investimenti vietati dall’amministrazione cinese, sia per gli investitori locali che per quelli esteri. Una sorta di “dono” agli investitori,che rappresenta un forte segnale di apertura nel settore dei servizi e della finanza. Anche le tempistiche non sono casuali, dato che la Commissione ha rilasciato l’aggiornamento proprio nel giorno del nuovo incontro in conference call tra i negoziatori del Trade Pact tra USA e Cina, rispettivamente Katherine Tai e Liu He. Si potranno formulare osservazioni fino a giovedì prossimo, quando la lista diventerà definitiva. Ciò che conta è che tutto ciò che non è incluso nella lista può essere oggetto di un investimento. La Cina ha superato in tal modo la vecchia classificazione degli investimenti. In ogni caso, coerentemente con gli ultimi sviluppi, il Governo cinese ha introdotto il divieto di investire in criptocurrency e nei media privati: una novità per quanto riguarda le aziende di Pechino.
I colloqui USA-Cina. Come detto, ha sorpreso la tempistica dipubblicazione della Negative List: resa pubblica proprio nel giorno dell’incontro virtuale tra il vicepremier cinese, Liu He, e la rappresentante commerciale degli Stati Uniti, Katherine Tai. Un summit molto atteso da Washington, che lo aveva definito come un “test” per capire se l’impegno diretto possa aiutare a risolvere il problema delle pratiche commerciali di Pechino. L’incontro virtuale di venerdì si inserisce nel quadro dei colloqui avviati a Zurigo tra i vertici della diplomazia di Washington e Pechino. Si è trattato del secondo incontro tra i due negoziatori, dopo che la Tai aveva annunciato in un discorso che la Casa Bianca avrebbe riavviato un processo per eliminare alcune tariffe dell’era Trump, anche se l’amministrazione cinese punta all’abolizione totale delle tariffe. Un dialogo che sembra essere ripartito stando alla dichiarazione congiunta a margine del summit: “durante il loro scambio di opinioni, i due negoziatori hanno riconosciuto l’importanza delle relazioni commerciali bilaterali e l’impatto che hanno, non solo sugli Stati Uniti e sulla Cina, ma anche sull’economia globale”. In merito alle novità della lista aggiornata, va fatta qualche annotazione in merito al settore dei servizi finanziari. Infatti, il nuovo strumento permetterà agli stranieri di richiedere conti in titoli e future, nonché un’apertura alle qualifiche per la fornitura di servizi di consulenza su titoli e investimenti a termine. Per le aree non incluse nell’elenco, i fornitori di servizi nazionali ed esteri dovranno avere condizioni di parità e godere di pari accesso al mercato nel porto di libero scambio di Hainan. Secondo Pechino il livello di apertura del commercio di servizi transfrontalieri ad Hainan va oltre gli impegni sottoscritti dalla Cina per entrare nell’Organizzazione mondiale del commercio, essendo persino superiore a quello dei principali accordi di libero scambio firmati.
La questione Taiwan. A sfatare questa atmosfera distensiva a livello economico, però, interviene prepotentemente la tensione tra Taipei e Pechino. Come detto, nella giornata di sabato Xi Jinping, seppur i toni più moderati, è tornato a porre la questione della riunificazione di Taiwan con lo stato cinese. Il Presidente cinese ha anche espresso la volontà di perseguire tale obiettivo attraverso un processo pacifico e condiviso, utilizzando la formula del “Un paese, due sistemi” come fatto per Hong Kong. Dunque, concedere un certo grado di autonomia all’isola del pacifico, mantenendo in ogni caso l’unità nazionale. Lo stesso Xi Jinping, tuttavia, ha scaricato le colpe del processo di riunificazione su Taiwan: “Il secessionismo indipendentista di Taiwan è il più grande ostacolo alla riunificazione del paese, una grave minaccia al rinnovamento nazionale. Nessuno deve sottovalutare la ferma determinazione del popolo cinese, la sua ferma volontà e la sua forte capacità nel difendere la sua sovranità nazionale e la sua integrità territoriale”.
La risposta di Taiwan. Naturalmente, la replica di Taiwan non si è fatta attendere e nella giornata di domenica la Presidente, Tsai Ing-Wen, ha la volontà taiwanese a non rinunciare al proprio modello democratico: “Nessuno può costringere Taiwan a seguire il percorso che la Cina ha tracciato per noi. Non agiremo avventatamente, ma non ci possono essere illusioni che il popolo taiwanese si pieghi alle pressioni”. La Presidente ha invitato Pechino a dialogare alla pari, richiamando i rapporti che il Paeseha con Stati Uniti, Giappone e Unione Europea e ribadendo che eventuali azioni contro l’isola di Taiwan avrebbero ripercussioni a livello globale. Un messaggio che ha particolarmente irritato Pechino. Dopotutto, che la questione taiwanese sia bollente non lo si scopre oggi, rappresentando un punto di frizione netta tra Washington e il dragone cinese. Le provocazioni arrivano da ambo le parti. La Cina nel corso del 2021 ha violato lo spazio aereo taiwanese ben 672 volte, spesso con aerei militari capaci di trasportare anche testate nucleari. Inoltre, le istituzioni di Taipei dicono che entro tre anni il dragone sarà in grado di invaderla e inglobarla con la forza. Dall’altro lato c’è il fatto che l’esercito di Taiwan da oltre un anno usufruisce delle nozioni di addestramento dei generali americani, cosa che ha fatto storcere il naso a Pechino che si sente minacciata da tali manovre.
Equilibrio. In mezzo a questo intreccio di tensioni e pressioni ci sono gli Stati Uniti guidati di Joe Biden. Il Presidente americano ha sempre ammesso di voler avviare un nuovo corso con le istituzioni cinesi, anche se fino ad ora l’atteggiamento non è stato troppo dissimile da quello dell’amministrazione Trump. La verità è che l’amministrazione americana ha necessità di trovare un punto di equilibrio fra determinati timori interni e l’opportunità di un nuovo dialogo. Nell’America odierna vive tanto nelle istituzioni quanto nei cittadini una vera e propria sinofobia, un vero e proprio timore nei confronti della Cina paragonabile in parte a quello che c’era per l’URSS. Da un punto di vista politico può essere anche utile. In un momento di divisione politica e sociale interna alla società statunitense, trovare un nemico esterno comune può essere utile a Biden per ricompattare la nazione. Da un punto di vista pratico, farsi trascinare da tale visione rischia di trascinare gli americani in una situazione ancor più complicata e controversa. Infatti, il perenne paragone con la Russia sovietica non è così veritiero e utile, dato che Pechino rappresenta un avversario a livello sistemico, economico e sociale molto diverso dall’Urss della Guerra Fredda. Inoltre, rifiutare aprioristicamente le aperture cinesi sul fronte economico e commerciale, significherebbe gettare al vento un’ottima leva diplomatica utile a riallacciare rapporti e raggiungere un’intesa utile a gestire meglio processi e situazioni controverse, come il caso di Taiwan. Toccherà a Biden comprendere quali siano le prossime mosse da porre in essere, solo una cosa appare chiara: farsi condizionare da un estremo timore nei confronti del dragone cinese è il peggior modo per avviare un dialogo con Pechino e rischia nel medio periodo di complicare ancor di più un quadro già estremamente complesso.