Il 2020 sembrava essere l’anno nero anche per l’economia cinese, specialmente dopo il primo lockdown e lo storico crollo del 6,8% del prodotto interno lordo nel primo trimestre. La Repubblica popolare ha ribaltato ogni previsione e, secondo i dati dell’Ufficio Nazionale di Statistica, è cresciuta del 2,3%, con una accelerazione del 6,5% nell’ultimo trimestre, migliorando le previsioni che davano una crescita al 2,1%. Tuttavia, su base congiunturale la crescita è stata in ribasso, attestandosi sul 2,6% rispetto alla previsione del 3,2% e ad una crescita del 3% nei mesi precedenti.
I dati e il calo storico dei consumi. Il PIL cinese ha anche superato la soglia dei centomila miliardi di yuan, nello specifico 101.598, 6 miliardi, pari a 15.661,12 miliardi di dollari. Ning Jizhe, direttore dell’Ufficio Nazionale di Statistica, ha definito il risultato “molto importante e simbolico per costruire una società benestante e un moderno Paese socialista a tutto tondo“. In una nota del suddetto Ufficio, che accompagnava la relazione sui dati annuali, viene riportato che: “L’economia nazionale si è ripresa stabilmente, il tasso di impiego e gli standard di vita sono miglioratifortemente e i principali obiettivi e compiti di sviluppo economico e sociale sono stati raggiunti meglio delle aspettative”. In ogni caso, il 2020 è stato l’anno con il tasso di crescita più basso dal 1976, quando vi fu una contrazione del 1,6%, condizionata anche da eventi interi, su tutti la morte di Mao Zedong. L’economia del dragone, però, sarà probabilmente l’unica tra le grandi economie mondiali a registrare una crescita in questo anno inevitabilmente segnato dalla pandemia. Tuttavia, non è completamente roseo il quadro economico. Infatti, gli analisti guardano con preoccupazione agli squilibri della crescita, specialmente per i consumi resi deboli dalla crisi causata dal Covid-19 e che hanno registrato una contrazione del 3,9% sulle vendite al dettaglio nell’anno passato: la prima contrazione su base annua dal 1968.
La corsa del manifatturiero e della Borsa. Sul fronte manifatturiero Pechino fa registrare numeri importanti: nel mese di dicembre l’export ha registrato un +18,1%, mentre la produzione industriale ha segnato un rialzo del 7,3% sullo stesso mese del 2019. Gli investimenti fissi si sono attestati su un +2,9% nel 2020, leggermente più basso del previsto +3,2% ma in aumento del 2,5% sui primi undici mesi del 2020. I dati del quarto trimestre hanno dato una notevole spinta alle borse cinesi, in controtendenza rispetto alle borse del quadrante asiatico: Shanghai ha chiuso in rialzo dello 0,84%, mentre l’indice Component della Borsa di Shenzhen ha segnato un balzo dell’1,58% e l’indice Hang Seng di Hong Kong ha terminato la seduta in rialzo dell’1,01%.
Ribasso moderato delle previsioni. Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale (FMI), la crescita cinese si attesterà sul 7,9% nel 2021, in ribasso rispetto all’8,2% dello scorso ottobre. I motivi di tale previsione sono dovuti alle conseguenze delle divisioni a livello tecnologico con gli Stati Uniti e i rischi finanziari interni. In ogni caso, la prospettiva non è così positiva come sembra, poiché, come avvertito anche dalle stesse autorità cinesi, le basi della ripresa sono ancora poco solide e la situazione economica mondiale rimarrà complessa anche nel 2021.
Il fallimento dell’accordo di Trump. A registrare numeri eccezionali in questo 2020 è anche il surplus economico tra Washington e Pechino, con i dati delle Dogane del dragone che registrano un incremento del 7% con gli Stati Uniti, raggiungendo la quota di 317 miliardi di dollari americani, a conferma della tendenza già segnalata nei primi undici mesi del 2020. In breve, la strategia dell’America First non ha dato i frutti sperati dal Presidente uscente. Venendo ai dati, l’export verso gli Stati Uniti solo nel mese di dicembre ha visto un incremento del 34,5% annuo, mentre l’import di beni statunitensi ha visto una crescita del 47,7%. In particolare, a trainare la tendenza sono stati i prodotti tecnologici e quelli medicinali: da marzo a dicembre dello scorso anno le aziende cinesi hanno esportato ben 224 miliardi di mascherine.
Rete geoeconomica. A favorire tale tendenza sono stati anche gli strascichi della disputa commerciale tra Washington e Pechino. I Paesi dell’Asean insieme alla Corea del Sud e al Giappone sono diventati i principali partner commerciali della Repubblica popolare cinese, seguita da Unione Europea e Stati Uniti. In merito all’UE, nel mese di luglio il dragone ha scavalcato Washington ed è diventato il primo partner commerciale di Bruxelles. Il quadro si è chiuso poi a dicembre con l’accordo di principio del CAI, in discussione da oltre sette anni.
Preoccupazione degli investitori europei. Tuttavia, la straordinaria performance degli investimenti esteri cinesi potrebbe creare alcuni problemi agli investitori esteri ed europei per via delle tensioni tra Washington e Pechino. Secondo un report d’indagine della Camera di commercio tedesca in Cina, già nel 2019 la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina aveva rappresentato il principale problema per le aziende tedesche e il disaccoppiamento (o decoupling come comunemente definito in ambito economico) delle due economie è ormai in atto e avrà le sue ovvie conseguenze. In merito proprio al decoupling, in questi giorni la Camera europea in Cina e il Mercator Institute for China Studies (MERICS) hanno diffuso un rapporto di questo processo su quattro aree di principale interesse strategico: macro (politica e finanziaria), commercio (catene di approvvigionamento e input critici), innovazione (standard e R&S), dati e reti (apparecchiature di rete e servizi di telecomunicazione). Il Rapporto, però, specifica anche che le azioni di disaccoppiamento da parte americana erano in atto già da alcuni anni.
Infatti, la campagna di Pechino per raggiungere l’autosufficienza nei settori strategici e ad alta tecnologia è stata avviata da anni, fino all’annuncio del China Manufacturing 2025 e la tendenza all’indipendenza nel settore scientifico sarà fortemente evidenziata nel prossimo piano quinquennale 2021-25. Il decoupling digitale tra Washington e il dragone cinese, inoltre, è considerato dai ricercatori di MERICS molto rischioso, soprattutto per l’impatto che potrebbe avere sulle imprese cinesi, che sarebbero costrette a prendere le contromisure per affrontare gli scenari avversi e dividere le operazioni internazionali. Così, mentre gli Stati Uniti tentano di eliminare dalle proprie reti i software e le componenti di fabbricazione cinese, la Cina, che dipende fortemente dai semiconduttori, sta spingendo per l’autosufficienza digitale.
Non a caso, è sul fronte digitale che la guerra commerciale sta creando i problemi più gravi per le aziende di settore. Secondo il rapporto il 19% delle aziende ha abbandonato o posticipato di progetti a causa delle normative cinesi sulla privacy. Le aziende europee si trovano nel mezzo di questa guerra. L’accordo del CAI è vincolante, ma i rischi vengono dalle forze economiche del settore, che procedono autonomamente. Pechino però non si risparmia nemmeno su questo fronte. Come detto in una intervista de “Il Sole 24 ore” di alcuni giorni fa, il nuovo ministro cinese del Commercio, Wang Wentao, ha promulgato una norma per risarcire i danni causati alle aziende cinesi dai divieti posti da Paesi ad altri Paesi in affari con la Cina. Naturalmente, gli occhi sono puntati su Washington. La fase 1 dell’accordo bilaterale sta per scadere e al contempo c’è stato il cambio di amministrazione alla Casa Bianca. Biden vuole avere un approccio più distensivo, ma ha designato come rappresentante del commercio statunitense Katherine Tai, di origini taiwanesi e da sempre molto aggressiva nei confronti cinesi. Al contempo la Cina ha nominato Yu Jianhua, viceministro del Commercio, a capo dei rapporti internazionali, già ambasciatore cinese presso la WTO. In breve, a livello economico la Cina mantiene il suo primato, ma la guerra con Washington rischia di essere un peso enorme per l’economia mondiale. La strada da percorrere è ancora lunga.