Più che semplici elezioni amministrative, quelle tenutesi domenica scorsa a Hong Kong sono state la prima vera occasione democratica attraverso cui i cittadini dell’ex colonia britannica hanno potuto esprimersi a proposito delle proteste degli ultimi mesi. E il risultato è stato inequivocabile: assegnando quasi il 90% dei seggi ai democratici, gli hongkonghesi si sono schierati in blocco dalla parte del movimento anti Pechino, contro la Repubblica Popolare Cinese.
“Uno tsunami”. Così Tommy Cheung, tra i leader del Movimento degli Ombrelli del 2014 e candidato nel distretto di Yuen Long, al confine con la Cina, ha definito – come riporta Il secolo XIX– lo straordinario afflusso alle urne registratosi alle elezioni di domenica scorsa. D’altronde in un momento delicato come questo, con l’occupazione studentesca del Politecnico di Hong Kong che stenta a concludersi, un simile evento non poteva non caricarsi di un evidente significato politico capace di travalicare la pura dimensione locale. Evidentemente ciò è apparso chiaro anche agli stessi cittadini di Hong Kong che dalle 7 della mattina si sono riversati nelle strade per recarsi ai seggi allestiti nei 18 distretti dell’ex colonia inglese, tornata alla Cina nel 1997.
Dopo cinque mesi di proteste e scontri tra cittadini e autorità, avviatesi lo sorso giugno in seguito all’approvazione in Cina della tanto contestata legge sulle estradizioni, la risposta della popolazione non poteva essere più chiara: con quasi il 90% dei seggi (396 sui 452 in palio) assegnati ai candidati antigovernativi, la schiacciante vittoria dei democratici assesta un duro colpo al potere pro establishment, nonché alla governatrice Carrie Lam. Una sconfitta ancora più cocente in virtù della straordinaria affluenza registrata alle urne, a fine giornata “superiore al 71,2%, – si legge su Il secolo XIX – con oltre un milione e mezzo di votanti in più rispetto a quattro anni fa (47%)”. Il governo pro Pechino è stato così costretto a dire addio a più di 240 seggi (rispetto a quelli conquistati alle elezioni del 2015), facendo registrare il più alto tasso di insoddisfazione popolare, superiore all’80% della popolazione, mai raggiunto nella storia della regione.
Il governo di Hong Kong ascolterà “certamente con umiltà le opinioni dei cittadini e rifletterà su di loro con serietà”. È questo l’impegno con cui Lam ha accolto con una nota – riportata dal sito Ansa – la pesante sconfitta subita domenica scorsa, della quale, tuttavia la governatrice sembra voler sminuire il significato politico. “Dopo i disordini sociali degli ultimi cinque mesi, credo fermamente – si legge su Huffington Post – che la grande maggioranza del pubblico condivida il mio desiderio che continui la situazione pacifica, sicura e ordinata” ha infatti dichiarato la governatrice, tentando di spiegare il risultato elettorale come un segnale dell’insoddisfazione dei cittadini “per l’attuale situazione sociale e i problemi ben sedimentati”. Ma è chiaro che il vero problema è altrove, ovvero fuori i confini della stessa Hong Kong.
“Hong Kong è parte integrante della Cina, a prescindere dal risultato elettorale”. Con queste parole tutt’altro che rassicuranti il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha commentato i risultati delle elezioni, durante un incontro a Tokyo col premier giapponese Shinzo Abe. “Qualsiasi tentativo di danneggiare il livello di prosperità e stabilità della città, non avrà successo” ha poi aggiunto Wang in un commento ufficiale. Parole dietro le quali non è difficile cogliere un tono (nemmeno troppo velato) di minaccia, verosimilmente constatato anche dal premier nipponico Abe. Quest’ultimo ha infatti approfittato di un incontro separato con Wang per esortare la Repubblica cinese a non invadere lo spazio di libertà e democrazia di Hong Kong, garantito “in base – riporta Huffington Post – all’affermazione del principio One country, Two systems”.