Il brasile resta stabilmente il secondo paese più colpito al mondo dalla catastrofe sanitaria del Covid-19. A peggiorare la situazione nel Paese è stato sicuramente l’atteggiamento negazionista del Presidente Jair Bolsonaro. È da tempo conosciuto la visione negazionista del Presidente e non solo in ambito sanitario. Infatti, anche dal punto di vista ambientale, negando in qualsiasi modo il riscaldamento globale e le sue conseguenze, ha negli anni portato avanti la sua opera di graduale deforestazione della Amazzonia brasiliana. Molti analisti avevano ipotizzato un allentamento dell’azione governativa su questo fronte data l’emergenza sanitaria, ma così non è stato; anzi, le attività di governo e gli incendi dolosi sono notevolmente aumentati.
Nuovi record. Nei primi tre mesi di questo nefasto 2020, lo Stato brasiliano ha occupato oltre tremila ettari della foresta amazzonica: oltre il 25% in più rispetto al primo trimestre del 2019. Un tale livello era stato raggiunto solo undici anni fa. Ancora più preoccupante l’aumento degli incendi degli ultimi dodici mesi, che è stato pari al 64%. Ancor più inquietante è il fatto che la stagione arida, quella dove si verificano tradizionalmente il maggior numero di incendi.
Svolta. Una situazione che sembrava inarrestabile fino a poco tempo fa, ma c’è stato un cambiamento negli ultimi mesi che potrebbe portare ad un cambiamento notevole. Al di là delle tipiche pressioni poste dai tradizionali governi schierati contro il riscaldamento globale, ad entrare in gioco contro l’azione brasiliana a danno delle foreste amazzoniche è la grande finanza internazionale. Infatti, una ventina di grandi fondi finanziari globali hanno iniziato a fare pressioni contro il Presidente Bolsonaro, considerato principale responsabile della deregulation ambientale e della passività del Brasile contro i fautori degli incendi che hanno devastato l’Amazzonia. I succitati enti, tra i quali figurano Blackrock, Legal & General Investment Management e i fondi pensioni della chiesa anglicana, hanno minacciato il ritiro degli attivi brasiliani, qualora le istituzioni statali brasiliane non agiscano concretamente per frenare questa tendenza. In particolare, il governo norvegese ha congelato i finanziamenti del Fondo Amazzonia: finanziamenti destinati inizialmente a ONG create per la salvaguardia della foresta e che sono stati in parte trattenuti dallo stesso Bolsonaro.
Esercito e dubbie rassicurazioni. Il vicepresidente Hamilton Mourao, incontrando parte dei direttori dei fondi di investimento nella fine di giugno, ha rassicurato in merito ad un impegno dell’esecutivo brasiliano, proclamando una moratoria dei roghi tramite l’utilizzo dell’esercito almeno fino a novembre e ribadendo che il governo brasiliano è il primo “a voler preservare l’Amazzonia perché si tratta della nostra più grande ricchezza naturale”. Tale missione militare prevede l’invio di oltre tremila unità tra soldati e agenti di polizia ambientale per evitare il ripetersi della tragedia del 2019. In ogni caso, rimane il fatto che fino ad ora tale decisione sembra non aver sortito effetti, dato che nel solo mese di luglio sono stati registrati ben 6803 nuovi incendi dal sistema di rilevamento satellitare con oltre 1500 giorni negli ultimi due giorni del mese. Nonostante le vane parole di rassicurazione del vicepresidente, Bolsonaro non vuole in alcun modo cambiare la sua linea di pensiero, convito che lo stato brasiliano sia vittima di una “setta ambientale internazionale”. Non a caso il Presidente ha più volte affermato: “Una cosa è la preoccupazione per l’ambiente, che condividiamo; un’altra è la pretesa di certi governi europei di venire a insegnare a noi cosa dobbiamo fare, dopo che per tre secoli l’Europa ha distrutto tutte le sue foreste”.
Gli interessi economici. Come sempre anche per l’Amazzonia la tragedia ambientale gira dietro ad un interesse economico non indifferente e che non riguarda solo i titoli del tesoro brasiliano o le azioni delle compagnie pubbliche locali a Wall Street. Tra i più importanti fattori in gioco c’è quello dell’agribusiness brasiliano, cioè il settore trainante dell’economia brasiliana, dato che il Brasile è il primo esportatore al mondo di soia e carne bovina. Tuttavia, nei paesi europei e in alcune città americane stanno sorgendo diversi gruppi organizzati volti al boicottaggio dei prodotti brasiliani. Secondo uno studio pubblicato su Science, il 22% della carne brasiliana venduta nei paesi UE, tra i quali l’Italia è il primo per importazione, proviene da terre deforestate. Soprattutto il colosso JBS, uno dei principali produttori mondiali di carne, è sotto pressione, tanto che da luglio il fondo Nodea Asset Management lo ha escluso dal portafoglio di titoli.
Gli aspetti commerciali. Tuttavia, le problematiche legate ai prodotti brasiliani potrebbero avere diverse conseguenze anche sul piano del commercio internazionale, dato che sono a rischio gli accordi stretti tra l’Unione Europea e Mercosur (il mercato comune dell’America latina), oltre che quello tra l’EFTA e la stessa Mercosur. Infatti, queste intese devono essere ratificate da tutti gli Stati membri e diverse resistenze parlamentari si registrano in Francia, Olanda e Austria, ma anche in Svizzera dove sono i coltivatori a fare grande pressione in merito. Tuttavia, una tale posizione potrebbe colpire anche chi non alleva bestiamo su territori deforestati. Come spiega il ricercatore Raoni Raiao Guerra “Se le imprese non correggono il tiro rischiano di pregiudicare tutto il settore, colpendo persino chi produce fuori dall’Amazzonia e non ha nulla a che vedere con la deforestazione”. Le “mele marce” dell’agribusiness brasiliano, così chiamate nello studio di Science, creano un danno d’immagine enorme che potrebbe tradursi in pesanti ritorsioni commerciali. È vero che alcuni dei principali consumatori di carne e soia sono anche i Paesi asiatici, come Cina e Iran, tradizionalmente poco attenti alle questioni ambientali, ma l’eventuale boicottaggio degli Stati europei e l’eventuale esclusione dai grandi fondi finanziari potrebbe avere grosse ripercussioni in brasile, specialmente per la difficile congiuntura economica prevista per la fase post Covid-19.