Il mandato di Donald Trump è ormai giunto al termine, nonostante il Tycoon continui ad avviare azioni legali contro l’esito elettorale e a denunciare la cosiddetta “vittoria rubata”. Sicuramente, una fine inelegante per un’amministrazione come quella americana. In ogni caso, alla chiusura di un mandato corrisponde anche il momento di tirare le somme sulle azioni dello stesso.
Secondo i fan del Presidente uscente, il bilancio delle politiche economiche di Trump avrebbe prodotto una crescita senza precedenti, basate su ricerca e analisi dei dati molto approssimativa e di parte. Sicuramente i risultati non sono quelli detti dai sostenitori dell’amministrazione repubblicana, ma dei risultati ci sono stati. Dunque, per comprendere quali saranno le future scelte di Biden sul fronte economico, bisogna ripercorrere l’azione politica degli ultimi quattro anni e analizzarne i risultati.
Tasse. Le politiche di Donald Trump sono state caratterizzate da un conservatorismo ortodosso e da un approccio in stile neo-reaganiano: incentrato su alta spesa pubblica, deregulation e taglio delle tasse. Il Tycoon ha sempre mostrato una preponderanza al protezionismo e il rifiuto del libero scambio, una mentalità che ricorda un po’ quella dei Presidenti delle prime decadi del Novecento, ma che è stato un atteggiamento più di facciata che reale. Sicuramente un punto forte delle politiche di Trump risiede nei tagli delle tasse sia sui redditi che, in particolar modo, sull’impresa, dove il taglio della Corporate Tax dal 35% al 21% ha rappresentato una delle politiche più importanti del Tycoon.
Un importante stimolo fiscale, che non ha potuto però usufruire dei massicci investimenti infrastrutturali promessi nel 2016 e mai attuati. Più efficace ancora è stata la Deregulation, che ha fornito uno stimolo importante, seppur indiretto, con la quale sono stati fatti cadere le misure in materia di ambiente imposte da Obama e parzialmente alcune di quelle messe in campo finanziario a seguito della crisi del 2008. Questa azione politica è stata poi completata dai bassi tassi d’interesse, ottenuti grazie alla costante e per certi versi pesante pressione di Trump sui vertici FED.
Crescita del PIL. Tenendo un attimo da parte il 2020 e gli effetti della Pandemia sullo scenario economico statunitense, gli stimoli dati dall’amministrazione repubblicana hanno avuto il pregio di mantenere buono il livello di crescita economica. Tuttavia, non è vera l’affermazione di alcuni sostenitori del Tycoon, secondo la quale l’economia americana ha visto una crescita superiore rispetto all’amministrazione precedente. Infatti, sotto Trump il PIL è cresciuto del 2,5% in tre anni, mantenendo lo stesso trend di crescita dell’ultimo triennio di Obama, attestatosi sempre sui due punti e mezzo percentuali di PIL.
Le misure trumpiane hanno avuto effetto soprattutto sulla disoccupazione. Nel gennaio 2017, ad inizio del nuovo corso del Tycoon, il tasso di disoccupazione, che era salito al 10% nel 2009 a causa della crisi economica, si attestava sul 4,7% grazie agli sforzi dell’amministrazione Obama. Trump ha raccolto un sistema che già andava a pieno regime e ha migliorare questi dati, portando la disoccupazione al 3,5% nel 2019. Anche i redditi medi, sempre grazie alla spinta dell’ultimo triennio obamiano, hanno visto una naturale crescita sotto Trump tra il 2017 e il 2019: i redditi medi sono cresciuti da 63.761 e 68.703 dollari annui per nucleo familiare.
Quadro complesso. In breve, l’amministrazione repubblicana ha avuto molti elementi di continuità con la precedente gestione democratica su crescita, disoccupazione e reddito medio. Tuttavia, sarebbe banale e semplicistico ridurre l’analisi e il giudizio sull’amministrazione Trump (come per quella Obama) su questi soli elementi, dato che il quadro è estremamente più complesso. Infatti, se prendiamo anche gli elementi usati dal Tycoon nel 2016 come i principali indicatori del malessere americano e sui quali agire per rilanciare gli Stati Uniti, il quadro è molto diverso.
Questi elementi indicativi sono il deficit di bilancio, quello commerciale e l’indebitamento pubblico, oltre che la forza del settore manifatturiero. In ciascuna voce appena elencata gli Stati Uniti hanno visto un peggioramento. I tagli alle tasse e alla spesa pubblica hanno si permesso ottime prestazioni da parte del PIL, per molti versi inferiori alle attese, ma hanno anche ampliato il margine di differenza tra uscite ed entrate. Infatti, il deficit è cresciuto costantemente anno dopo anno: 3,4% del PIL 2017, 3,8% nel 2018 e 4,6% nel 2019, senza contare il 2020 dove le stime pronosticano un terribile 15%.
Non diversa la questione su deficit esterno, che sotto Trump ha visto i passivi commerciali più alti a livello storico con ben 872 miliardi di dollari nel 2018 e un passivo del 20% superiore rispetto al mandato di Obama. Il debito americano è rimasto pressoché stabile, mentre la promessa di reindustrializzazione è stata completamente disattesa, come prevedibile a livello pratico, e la crescita è stata trainata dai servizi avanzati. Infine, sul fronte della ridistribuzione della crescita l’azione di Trump è stata quasi nulla. Obama aveva emanato un ordine esecutivo per aumentare il salario minimo dei dipendenti federali, mentre il Tycoon su questo punto si è addirittura dichiarato contrario.
Anzi, The Donald ha infuso un grande impegno nello smantellare la riforma di Obama e impedire l’estensione della sanità pubblica. Negli ultimi quattro anni l’azione dell’amministrazione repubblicana ha drasticamente aumentato il numero dei cittadini americani privi di tutela sanitaria, circa due milioni e duecentomila persone tra il 2017 e il 2019. Infine, il 2020 ha avuto un impatto tremendo sugli Stati Uniti a livello sanitario ed economico.
Il turno di Biden. Tutta la serie di scelte operate ne corso dell’amministrazione Trump avranno un peso notevole per la nuova amministrazione democratica che si insedierà il 20 gennaio prossimo. Biden ha un programma ambizioso e radicale, spronato anche dalle necessità imposte dalla pandemia di dare risposte efficaci e forti rispetto ad un atteggiamento più convenzionale. Tuttavia, diversi sono i punti che necessitano di una giusta dose di moderatezza politica.
In particolare, sulla fiscalità sarà arduo agire. Come detto, uno dei più grandi successi di Trump è stata la riduzione della corporate tax, la quale è stata di certo sostanziale sulle imprese, ma limitata sui redditi dove si sono realizzati più dei piccoli ritocchi che veri e propri stravolgimenti. Provvedimenti poco radicali e semplici da applicare, ma difficili da cancellare per i loro risvolti sociali e il loro costo in termini di gradimento politico. Su questo fronte il nuovo Presidente agirà sicuramente con una certa gradualità, andando anche a ritoccare la corporate tax senza tornare ai livelli antecedenti al 2017.
Economia, commercio e sanità. Diverso sarà l’approccio democratico alle scelte macroeconomiche e alle politiche del commercio internazionale. Sul primo si cercherà di porre un’azione in grado di stimolare i consumi e la crescita, con assegni diretti e sgravi di diversa natura, per dare una prima forte risposta agli effetti della pandemia sull’economia. Una delle prime azioni di Biden, nonché uno dei principali punti della campagna elettorale, sarà probabilmente incentrato sul potenziamento della sanità pubblica e sul rafforzamento delle tutele dei lavoratori, che porteranno probabilmente ad un aumento di salario: misure che dovrebbero trovare un ampio sostegno, anche in Stati tradizionalmente repubblicani.
Ambiente e multilateralismo. Uno dei primi punti che sarà affrontato quasi sicuramente è quello delle politiche ambientali. Biden inizierà anzitutto con la reintroduzione di diversi principi regolatori introdotti nell’era Obama con lo specifico obiettivo di scardinare la Deregulation trumpiana. Il programma punterà principalmente sullo sviluppo di fonti energetiche pulite nel settore dei trasporti e dell’edilizia. Naturalmente, ci sono differenze con l’amministrazione Obama, dato che le nuove misure non saranno un mero mezzo per il contrasto al cambiamento climatico, ma anche come strumento utile alla lotta contro le diseguaglianze sociali.
Questi obiettivi interni s’intrecciano perfettamente anche con gli impegni internazionali, dove Biden vuole rilanciare l’impegno globale statunitense in ambito ambientale e non solo. Il primo passo sarà sicuramente rientrare negli accordi di Parigi del 2015. Inoltre, il neopresidente americano vuole rilanciare gli Stati Uniti come protagonista del multilateralismo internazionale sia con i partner atlantici che con quelli del Pacifico. Il passaggio non sarà semplice, specialmente dopo quattro anni di tensioni, scontri e rifiuto quasi totale del multilateralismo da parte di Trump.
Limiti. Nonostante i numerosi buoni propositi della nuova amministrazione, ci sono diversi ostacoli all’azione di Biden. Anzitutto uno politico: la maggioranza al Senato in caso di vittoria ai ballottaggi della Georgia. Infatti, la superiorità democratica sarebbe garantita solo dal voto della Vicepresidente Harris e di certo non sarebbe in grado di garantire una agenda politica efficace per la camera alta. Infine, vi è la questione Cina: il Presidente eletto tenterà di risolvere le diverse questioni aperte con Pechino, cercando di emancipare Washington da questa relazione stretta che si è venuta a creare. Tuttavia, su questo punto l’opinione pubblica giocherà di certo un ruolo non secondario. Biden ancora non si è insediato alla Casa Bianca, ma è facile prevedere che saranno quattro anni molto lunghi.