La firma del Comprehensive Agreement on Investment (CAI) tra Unione Europea e Cina, dopo oltre sette anni di trattative estremamente complesse, presagiva una nuova fase di relazioni bilaterali tra il Vecchio continente e il Dragone. A poco più di tre mesi dalla firma dell’intesa, il rapporto tra le due parti si è drasticamente raffreddato nel giro di una settimana e i lunghi anni di lavoro per un’intesa commerciale potrebbero essere compromessi. Tuttavia, è proprio il rapporto tra l’Occidente e le potenze orientali ad essersi raffreddato in queste ultime settimane: una serie di scontri e azzardi diplomatici che hanno riportato in auge un clima da Guerra Fredda.
In questo duro atteggiamento nei confronti di Mosca e Pechino l’UE sta seguendo l’approccio degli Stati Uniti di Joe Biden. Certo, lo scontro con lo Stato russo era già in atto per via della questione Navalny, ma ha subìto una sterzata dopo gli ultimi affondi dell’amministrazione statunitense. Infatti, prima Biden ha attaccato apertamente e in maniera forse troppo drastica il Presidente russo, Vladimir Putin, definendolo un assassino nel corso di una intervista televisiva. Pochi giorni dopo, ad Anchorage, in Alaska, il summit tra la rappresentanza cinese e quella americana, il primo dopo la chiusura del dialogo da parte di Trump, è stata altrettanto dura. Da una parte, il Segretario di Stato americano, Anthony Blinken, ha richiamato la Cina sulla questione della violazione dei diritti umani nei confronti della minoranza Uiguri e accusato il governo cinese di cyberattacchi nei confronti degli Stati Uniti, mentre, dall’altra parte, il responsabile della diplomazia cinese, Yang Jiechi, ha risposto altrettanto duramente, definendo gli USA come contraddittori sul tema dei diritti umani con un esplicito riferimento alle diverse comunità americane vittime di violenza e accusando l’amministrazione di incitare un atteggiamento aggressivo nei confronti di Pechino.
A pochi giorni di distanza dal summit di Anchorage arriva la mossa europea. Infatti, nella giornata del 20 marzo i 27 Stati membri dell’Unione Europea hanno approvato le prime sanzioni nei confronti della Cina, in particolare contro cinque funzionari di alto rango, per la violazione dei diritti umani della minoranza Uiguri nello Xinjiang. Un cambio di atteggiamento drastico e che non è assolutamente piaciuto a Pechino, che ha risposto in maniera molto più dura di Bruxelles, sanzionando personalità ed enti europei. Alle persone fisiche e per le loro famiglie sarà vietato l’ingresso Cina, Hong Kong e Macao, mentre alle aziende e istituzioni non sarà permesso fare affari con il Dragone. L’intervento di un portavoce del Ministero degli Esteri cinese ha spiegato che “la decisione europea è basata su nient’altro che bugie e disinformazione”, interferisce con gli affari interni cinesi e ha invita Bruxelles “a tornare sui propri passi, ad affrontare apertamente la gravità del suo errore e rimediare”.
La scelta europea non è isolata, ma rientra in una azione coordinata con Stati Uniti, Regno Unito e Canada. Infatti, questi ultimi hanno già annunciato misure sanzionatorie nei confronti degli stessi soggetti colpiti dalla decisione europea. In realtà le misure europee non vanno a colpire solo funzionari cinesi, ma soggetti di diversi Paesi ritenuti responsabili di azioni contro i diritti umani: nello specifico di Russia, Eritrea, Corea del Nord, Sud Sudan e Libia, oltre che undici personalità considerate responsabili del golpe in Myanmar.
In breve, le azioni di Bruxelles sembrano spingersi verso quello che sembra consolidarsi come un fronte internazionale di contrapposizione alla Cina. Sicuramente uno sviluppo fortemente voluto dal Presidente americano, storico atlantista volenteroso di legarsi nuovamente agli storici alleati europei. Tuttavia, un cambio di approccio da parte di Bruxelles troppo repentino ed estremo, specialmente perché la Cina rappresenta sicuramente un rivale sistemico, ma anche uno tra i principali partner commerciali dell’UE con il quale ha tentato di avere un certo equilibrio tra interessi e valori democratici, in particolare sotto l’amministrazione Trump.
A complicare il quadro c’è, poi, la visita del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, nella città cinese di Guilin, avvenuta in concomitanza della decisione europea di sanzionare la Cina. Lavrov ha espresso solidarietà al governo cinese, definendo imprudenti le sanzioni di Bruxelles e richiamando alla collaborazione. Tuttavia, l’abile ministro russo ha anche teso la mano a Pechino, chiedendo che Russia e Cina riducano la propria dipendenza dal dollaro. Parole accolte calorosamente da Hua Chunying, ministro degli Esteri cinese, che ha ribadito la stretta collaborazione tra Mosca e Pechino e spiegato che “lo sviluppo delle relazioni russo-cinesi non si rivolge contro nessun paese in particolare, è un rapporto aperto e onesto, a differenza di quelli di altri paesi, che hanno i loro secondi fini e bersagli non dichiarati”. Un rapporto probabilmente rafforzato dalle ultime mosse occidentali, ma che potrebbe portare i due Paesi a svincolarsi dalle armi sanzionatorie dell’Occidente. Infatti, la riduzione di una dipendenza dal dollaro permetterebbe a Pechino e Mosca di aggirare tutta una serie di controlli e blocchi finanziari, rendendo inefficiente il potere repressivo delle misure predisposte da Washington e dai partner atlantici.
In questo contesto, quella che sembra perderci di più risulta essere l’Unione Europea. Infatti, senza un’azione politico-diplomatica forte e ponderata, Bruxelles rischia di far fallire il CAI, la cui ratifica da parte del Parlamento Europeo è quasi compromessa. Ciò significa far tornare l’UE strettamente dipendente dal suo rapporto con Washington, tornando ad un muro contro muro con Mosca, che non ha mai portato a risultati concreti, e ad un rapporto freddo con Pechino. Scelte diplomatiche troppo repentine e che rischiano di ricreare una contrapposizione tra due blocchi e di avere pesanti ripercussioni sulla ripresa globale dalla crisi sanitaria post pandemia.