Nemmeno la furia del Covid-19 è riuscito a rinfocolare lo spirito di unità e a riavvicinare le parti tra gli indipendentisti catalani e il governo di Madrid. Così, nella giornata di domenica, nonostante i numeri alti e preoccupanti del contagio, si è tenuta l’ennesima tornata elettorale per il rinnovo della Generalitat, il parlamento della regione autonoma della Catalogna, la quarta in meno di otto anni.
Come al solito, al centro del dibattito politico c’era un unico grande tema: l’indipendenza. Una questione che ha lacerato in profondità il popolo spagnolo e appiattito completamente il confronto tra i partiti locali sul tema del separatismo, con grosse conseguenze politico economiche sulla regione catalana e sulla meravigliosa città di Barcellona. Un tema che ha bloccato la politica e la società della regione spagnola ormai dal 2012 e che difficilmente troverà soluzione con questa ennesima tornata.
Infatti, i partiti indipendentisti catalani, al governo già nell’ultima legislatura, hanno raggiunto la maggioranza assoluta dei seggi della Generalitat, ma nessuno è risultato essere il partito più votato. Per le compagini separatiste, i dati hanno confermato un 21,3% per il partito di centrosinistra Sinistra Repubblicana della Catalogna (ERC), equivalenti a 33 seggi, mentre il 20% è stato ottenuto dalla formazione di centrodestra Junts (Junts per Catalunya cioè “Insieme per la Catalogna”), che ha conquistato 32 seggi; infine, la compagine di estrema sinistra di Candidatura Popolare Unita (CUP) ha ottenuto il 6,6% delle preferenze, corrispondenti a 9 seggi della Generalitat. Dunque, con 74 seggi conquistati, le tre forze indipendentiste hanno di gran lunga superato la maggioranza assoluta che si attesta sui 68 seggi. Inoltre, per la prima volta, le tre compagini hanno superato insieme la soglia del 50% delle preferenze.
Tuttavia, questo dato è stato parzialmente favorito anche dal Covid-19, poiché anche l’astensione ha raggiunto il suo massimo storico. Infatti, alle urne si è recato il 53,5% degli aventi diritto con una pesante flessione del 25% rispetto alle elezioni del 2017. Tra le altre compagini, favorevoli ad un’intesa e un ricongiungimento con Madrid, ci sono stati in ogni caso diversi dati interessanti. Il partito più votato della tornata è stato il Partito Socialista (PSC) del Primo ministro Pedro Sanchez, che con il 23% ha guadagnato 33 seggi. Il motivo dello stesso numero di seggi con ERC è dovuto al fatto che il PSC ha molti consensi nella città di Barcellona che esprime un numero di seggi in rapporto alla popolazione più basso rispetto ad altre aree catalane.
Un dato importante è il risultato della compagine Vox, partito di estrema destra, neofranchista e a favore del ricongiungimento con lo Stato centrale, che supera anche il CUP, ottenendo il 7,6% delle preferenze, un risultato migliore delle aspettative. En Comù Podem, una formazione politica che può essere collegata alla formazione nazionale di Podemos, ha raccolto il 6,8% dei consensi, mentre Ciudadanos registra un crollo eclatante, raccogliendo solo 5,5% corrispondenti a solo sei seggi, quando nella scorsa ne aveva ben trenta. Infine, il crollo più pesante è quello del Partito popolare, che raccoglie a stento il 3,8% delle preferenze.
La previsione dell’esecutivo catalano dovrebbe essere di facile previsione, con i partiti indipendentisti alla guida del governo. Tuttavia, la trattativa non sarà così semplice come si può immaginare. Infatti, solitamente il partito dominante fra le compagini separatiste è stato Junts, che ha sempre avuto un peso primario nelle decisioni più importanti. Questa volta a guidare la coalizione dovrebbe essere l’ERC di Oriol Junqueras, che attualmente sta scontando la pena per la condanna di sedizione e malversazione per il controverso referendum del 2017. Raggiungere un equilibrio non sarà cosa semplice, date anche alcune frizioni avute nella scorsa legislatura tra lo stesso ERC e Junts.
In realtà, sarebbe anche possibile una alternativa di governo con una coalizione composta dal PSC, ERC ed En Comù Podem, che sarebbe una riproposizione del governo centrale di minoranza guidato da Sanchez. Tuttavia, questa coalizione di sinistra risulta difficile, perché le posizioni tra unionisti e indipendentisti si sono fortemente acuite negli ultimi anni. Inoltre, non sembra essere nelle intenzioni di Pere Aragonès, candidato ERC alla presidenza catalana, che nella mattinata di martedì ha dichiarato: “Nei prossimi giorni, oggi o comunque entro la settimana, dovremo essere in grado di andare avanti nei colloqui. Il 12 marzo è il termine per una prima votazione in parlamento, ma spero che l’accordo sia molto prima”, invitando tutti gli indipendentisti a sedersi al tavolo. Anche Laura Borràs, la candidata alla presidenza di Junts, sembra spingere verso quella direzione, dichiarando che “Il risultato delle urne consente un governo indipendentista”.
In ogni caso, nel mezzo del marasma politico catalano c’è una regione che ormai inizia ad annaspare sempre di più. Una Catalogna ormai cinta nel circolo vizioso di accuse reciproche tra gli indipendentisti e lo Stato centrale che sembra non trovare sbocchi, specialmente dopo il referendum fuori da ogni regola dello Stato di diritto che ha inasprito i rapporti tra le parti. Un confronto che ha portato ad una decade di regresso per la regione e per la sua principale città, un periodo ormai definito a livello spagnolo come la “década perdida”.
Le conseguenze sociali ed economiche ovviamente non mancano e non mancheranno per una probabile instabilità che continuerà nel breve periodo: le imprese catalane sono in fuga, le multinazionali evitano un approccio per la mancanza di stabilità e di certo controproducente diventa la politicizzazione della Camera di commercio di Barcellona, con i suoi vertici volti verso un separatismo che poco collima con la naturale propensione europea della regione. Le conseguenze si fanno sentire anche a livello internazionale. Non a caso, grande imbarazzo è stato provato da Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e catalano unionista, che, recatosi in Russia per discutere della questione Navalny e delle proteste contro Vladimir Putin, è stato prontamente schernito dal cinico Sergej Lavrov, ministro degli Esteri russo, che ha rinfacciato come l’intervento delle forze dell’ordine di Mosca sia stato nulla rispetto alla “repressione” operata da Madrid in Catalogna.
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