La tensione nel Golfo Persico è andata aumentando anno dopo anno. Il primo passo di questa escalation è stata nel 2017, quando gli Stati Uniti di Donald Trump hanno deciso di fuoriuscire dal JCPOA, l’accordo sul nucleare fortemente voluto dal Presidente Obama e che coinvolge anche Unione Europea, Russia e Cina. Il 2020 rappresenta il culmine di questa tensione e per morti aspetti è un anno nefasto per Teheran a livello geopolitico, oltre che economico e sanitario.
Iniziato con l’assassinio del famoso generale Qassem Suleimani per mano americana, proseguita con l’avvicinamento delle monarchie sunnite allo Stato ebraico con i recenti “Accordi di Abramo”, l’annata si conclude con un altro grave colpo per la politica strategica iraniana: l’uccisione dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh, esperto nucleare della repubblica sciita, assassinato a settanta chilometri dalla capitale iraniano per mezzo di ordigni comandati a distanza. Sicuramente un nome meno blasonato dell’eroe Suleimani, ma una morte altrettanto pesante per Teheran, dato il fatto che lo scienziato assassinato rappresentava uno degli uomini di maggior peso del programma nucleare iraniano.
Difficoltà iraniane. Sicuramente, le alte sfere politiche e religiose della Repubblica sciita vogliono rispondere ad una tale offesa, ma diversi sono gli ostacoli che ne complicano la fattibilità. Per il regime iraniano è una naturale priorità quella di riaffermare l’orgoglio nazionale e mettere in atto il suo peculiare sistema di deterrenza: far comprendere ai propri nemici che qualsiasi attacco ad obiettivi iraniani avrà conseguenze nefaste per i responsabili. Tuttavia, proprio su questo punto Teheran ha mostrato più di qualche punto di debolezza nell’ultimo anno.
Non a caso, il bombardamento delle basi americane irachene successivo all’assassinio di Suleimani non ha sortito nessun effetto pratico; anzi, è stato controproducente. Infatti, l’attacco di gennaio è stato molto scenografico e poco concreto nei fatti, dato che non ha prodotto vittime nelle fila del nemico statunitense ed è stato visto da molti analisti come un segno di debolezza. Durante il mese di agosto, poi, sempre in Iran è stato ucciso al-Masri, uno degli ultimi leader di Al-Qaida, in un blitz compiuto probabilmente da agenti israeliani infiltrati e non individuati dall’intelligence iraniana. Altro grave smacco subito da Teheran, nonché segno di debolezza.
Transizione. L’omicidio di Fakhrizadeh è forse l’ultimo colpo subito dall’Iran in questo 2020. Almeno così si spera. Infatti, molti cittadini iraniani hanno il timore che questo tipo di incursioni e attacchi possano aumentare nei prossimi mesi, senza contare che lo stesso Donald Trump, ormai agli sgoccioli del suo mandato, non ha fatto segreto dell’intenzione di infliggere il peggior danno possibile al regime iraniano prima del passaggio di consegne al Presidente eletto, Joe Biden.
Naturalmente, il Tycoon non avrà grande possibilità di manovra per eclatanti colpi di testa in questa fase di transizione, ma le possibilità che possa compromettere ancor di più le relazioni diplomatiche tra i due Stati, anche per fare un dispetto al suo successore, ci sono. Non a caso, lo stesso ministro iraniano della Cultura, Mohammad-Hossein Khoshvaght, attraverso un comunicato che: “fino a quando Trump non avrà lasciato la Casa Bianca sarà il periodo più pericoloso per l’Iran”. La Repubblica sciita, però, ha spazi di manovra molto ristretti vista la situazione precaria dell’economia nazionale, messa in ginocchio dalle sanzioni economiche americane, inasprite sotto il mandato di Trump, e dall’infuriare della pandemia di Covid-19.
Per uscire da questo angolo, Teheran dovrebbe tornare a dialogare con Washington, cosa possibile con l’insediamento della nuova amministrazione, anche se le condizioni di Biden non saranno le stesse poste al tempo di Obama. Tuttavia, tale prospettiva non si compirebbe, qualora l’Iran rispondesse militarmente a Israele per l’assassinio dello scienziato Fakhrizadeh; anzi, spingerebbe Biden ad avere un approccio duro nei confronti dello Stato sciita.
Le posizioni interne e la tensione regionale. Forse, l’uccisione dello scienziato da parte dello Stato ebraico, probabile autore dell’attacco, seppur ufficialmente non confermato, potrebbe avere il fine di compromettere qualsiasi spazio di dialogo tra Washington e Teheran o, più probabilmente, quello di alzare ulteriormente il livello, già alto, di tensione nella regione. Tutte queste provocazioni, oltre a gioco diplomatico di Tel Aviv per avvicinare le sue posizioni alle grandi potenze sunnite, a loro volta acerrimi nemici di Teheran, hanno portato la pace regionale a reggersi su un filo: basta un minimo errore comunicativo, di calcolo o strategico per far partire inavvertitamente una escalation militare dai risvolti imprevedibili. Inoltre, tutta questa serie di elementi sono andati fondamentalmente a dividere l’opinione dei cittadini iraniani sul da farsi per rispondere all’uccisione dello scienziato.
Le posizioni fondamentalmente si dividono in due principali campi, che sono poi quelli che condizionano la stessa vita politica iraniana. Dunque, da una parte, ci sono gli ultraconservatori, la fazione più potente e che comprende anche le Guardie rivoluzionarie, che rispondono alla principale figura politica e religiosa dello Stato: la Guida suprema Ali Khamenei. La posizione di questa frangia è quella della risposta forte, decisa e soprattutto violenta, finalizzata ad evitare nuovi attacchi futuri. Inoltre, molti ultraconservatori pensano che sia stato proprio l’attendere un cambio di amministrazione negli Stati Uniti ad aver spronato gli altri nemici dell’Iran ad azioni sempre più eclatanti ed aggressive.
Dall’altra parte, invece, la posizione dei moderati fedeli al Presidente Hassan Rouhani, fautore dell’accordo con Obama, è diametralmente opposta. Subito dopo l’uccisione dello scienziato, il presidente iraniano è intervenuto dicendo di dover continuare a seguire la politica americana della “pazienza strategica”, finalizzata a provocare un nuovo accordo tra Teheran e Washington o ad un cambio di regime interno, e che fino a questo momento ha evitato nuovi scontri con l’amministrazione Trump.
L’obiettivo di Rouhani è quello di resistere fino al passaggio di consegne del 20 gennaio, nella speranza di avviare nuovi colloqui e un nuovo corso con l’amministrazione Biden. L’unica cosa che resta da capire è se il terreno per un’azione diplomatica riuscirà a resistere fino al 20 gennaio o se Trump (e i suoi alleati regionali) riuscirà a compromettere qualsiasi spazio d’azione prima dell’insediamento di Joe Biden.