Il tema. Il commercio è spesso al centro del dibattito europeo. Le politiche commerciali sono infatti un’area dove più ampia è stata la cessione di sovranità da parte degli Stati membri a favore dell’Unione, che ha oggi competenza esclusiva tanto nel definire le regole del commercio all’interno dell’UE quanto nel concludere accordi commerciali a nome di tutti i Paesi membri. Tale potere può essere a volte percepito come eccessivo, come ad esempio nel caso della regolamentazione comunitaria che stabilisce le dimensioni minime per le gabbie delle galline ovaiole, e ha contribuito ad alimentare casi di disinformazione e miti come quelli circolati sui social media britannici alla vigilia del referendum su Brexit. Al netto dei casi di disinformazione, il motivo della mole di norme che regolano la politica commerciale dell’UE risiede tuttavia nella necessità di armonizzare standard e regole tra i diversi Paesi membri al fine di garantire una competizione equa tra tutti gli attori economici all’interno del mercato unico. Oggi, il diritto comunitario copre ormai pressoché tutte le aree relative al commercio tra i suoi Stati membri, con misure che spaziano dalla politica di concorrenza tra le imprese europee alla regolamentazione dei monopoli e all’intervento dello Stato in economia. Lo dice l’ISPI in uno speciale in vista delle elezioni europee dedicato al tema del commercio che riportiamo integralmente.
L’obiettivo di Bruxelles rimane quello di impedire l’adozione di misure che limitino gli scambi tra i Paesi dell’UE, creando un level playing field (un terreno di regole comuni) su cui far competere le imprese europee in modo equo. Occorre però tenere presente che il commercio, sebbene a livello aggregato crei crescita e aumenti il benessere generale dei Paesi che si aprono ad esso, allo stesso tempo favorisce una maggiore concentrazione delle attività economiche tanto a livello di imprese che di regioni. Imprese più competitive tendono a spingere fuori dal mercato quelle più deboli di altri Paesi, così come le regioni con più opportunità in ogni Paese tendono a sfavorire quelle più deboli in termini di infrastrutture e capitale umano. Per contrastare tale fenomeno, l’UE si è dotata, oltre che di una politica sulla concorrenza, di politiche di coesione che puntano a supportare la crescita delle regioni meno sviluppate. Questi fondi di sviluppo regionale e fondi di coesione pesano per circa il 30% di un bilancio complessivo dell’UE che a sua volta vale però solo l’1% del Pil aggregato di tutti i Paesi membri.
Il ruolo delle istituzioni di Bruxelles è altrettanto fondamentale sul versante esterno della politica commerciale europea, l’ambito in cui si proietta in modo più efficace l’azione esterna dell’Unione Europea. Attraverso la negoziazione e la gestione degli accordi commerciali con i Paesi extra-Ue l’Unione può infatti non solo far valere il proprio peso economico e negoziale, superiore a quello che potrebbero avere i singoli Paesi membri, ma anche e soprattutto proiettare il proprio modello, i propri valori e i propri standard verso l’esterno. Tra gli strumenti che riguardano il commercio internazionale, fondamentali sono gli accordi che l’UE sigla per il mantenimento di relazioni particolari con alcuni Paesi terzi. Tra questi rientrano gli accordi conclusi dall’UE con le ex colonie, che prevedono dazi bassi o nulli per le merci importate da tali Paesi. Un secondo tipo di accordi riguarda invece quei Paesi che si preparano all’adesione all’Unione: accordi in cui la creazione di un’unione doganale e altri accordi commerciali fanno parte di un pacchetto più ampio di misure che uno Stato si impegna ad adottare in preparazione all’ingresso nell’Ue (il cosiddetto acquis communautaire). Un terzo tipo di accordo commerciale è quello sullo spazio economico europeo che regola i rapporti con i Paesi membri dell’Associazione europea di libero scambio (EFTA): Islanda, Liechtenstein e Norvegia. Questo accordo consente l’accesso al mercato interno dell’Unione a patto però di adottare buona parte della legislazione europea in materia di libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali, concorrenza, antitrust e aiuti di Stato.
Le analisi. I dazi degli USA mettono a rischio le imprese italiane: l’economia italiana è sempre più dipendente dalle esportazioni e una guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti potrebbe avere conseguenze pesanti per le imprese italiane, spiega il presidente di Sace, Beniamino Quintieri.
La diseguaglianza che arriva dal commercio: oggi non è più possibile affermare che gli effetti del libero commercio sulla distribuzione del reddito siano minimi. Questo non vuol dire che si debbano abbracciare le tesi del protezionismo, ma occorre fornire risposte a coloro che vengono lasciati indietro dalla globalizzazione. UE e Stati Uniti si riavvicinano, ma rimangono i problemi: alleati storici, Unione europea e Stati uniti hanno fallito nel trovare un accordo commerciale che aprisse reciprocamente i rispettivi mercati interni. Le possibilità che nuovi negoziati abbiano successo sembrano ancora scarse.
La posizione dell’Italia. Nell’economia italiana, il commercio internazionale ha assunto un peso crescente, tanto da contare oggi per quasi un terzo del Pil nazionale. Dal 2010 al 2017 le esportazioni sono infatti cresciute di oltre il 30%, triplicando l’avanzo commerciale dai 16 miliardi di euro del 2012 ai 50 del 2017. Gran parte di ciò deriva proprio dai Paesi membri dell’Unione Europea: sette dei dieci maggiori partner commerciali italiani sono infatti Paesi membri dell’UE e rappresentano più del 40% del totale delle esportazioni italiane. Il mercato comune ha però comportato anche nuove sfide per le imprese italiane: l’adozione degli standard europei ha significato in certi casi un abbassamento dei requisiti che alcuni prodotti dovevano rispettare per entrare sul mercato italiano; altre volte, al contrario, l’UE ha modificato al rialzo gli standard necessari a vendere nel mercato unico. Allo stesso modo, l’eliminazione delle barriere al commercio ha aperto nuove opportunità di export, ma ha anche esposto le imprese italiane a maggiore competizione. Anche rispetto al commercio con i Paesi extra-UE l’appartenenza al mercato unico è fonte tanto di opportunità quanto di sfide per l’Italia. Trovandosi sotto l’ombrello della politica commerciale europea, le imprese dei vari Stati membri accedono ai mercati esteri alle stesse condizioni. Le politiche di promozione dell’export rimangono però di competenza nazionale e per le imprese italiane che si affacciano ai mercati esteri i competitor principali sono spesso proprio le imprese di altri Paesi dell’UE. Dunque, nel momento in cui Bruxelles negozia accordi commerciali con Paesi terzi è fondamentale per ogni Stato membro rappresentare al meglio le proprie prerogative. Quando questo risultato viene raggiunto, i benefici sono significativi, come dimostrato ad esempio dal Ceta: nell’accordo di libero scambio tra UE e Canada, l’Italia ha ottenuto la tutela dell’indicazione geografica per ben 41 marchi (su 143 europei), che rappresentano il 90% dell’export italiano verso il Nord America. Altro esempio positivo è l’accordo di libero scambio tra UE e Corea del Sud siglato nel 2011: da quell’anno al 2017, l’export italiano verso il Paese asiatico è aumentato del 18%.
Aprire un mercato al commercio internazionale e alla concorrenza delle imprese straniere significa sempre creare vincitori e vinti. Sta ai governi sviluppare la giusta strategia di politica commerciale per un Paese in cui le esportazioni hanno rappresentato una delle poche variabili che hanno contribuito alla sua crescita negli ultimi anni; una strategia che possa compensare gli sconfitti della globalizzazione e al tempo stesso valorizzare le imprese più innovative e dinamiche.