All’incirca sette mesi fa, l’11 marzo 2020, l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarava il focolaio internazionale di Coronavirus pandemia. Ma, come ormai è noto, la drammatica storia della diffusione mondiale del Covid-19 ha un esordio ben più lontano nel tempo, risalente almeno a tre mesi prima: il South China Morning Post, storico quotidiano di Hong Kong, fa risalire infatti – basandosi su fonti governative – il primo contagio registrato in Cina al 17 novembre 2019.
Tuttavia, sono stati necessari oltre cinquanta giorni prima che il paese comunicasse all’Oms la presenza tra i suoi cittadini di una “strana polmonite”. Un silenzio, quello del governo cinese, dalle conseguenze verosimilmente incalcolabili – come riportato da un recente articolo di Dataroom di Milena Gabanelli – in termini di diffusione internazionale del virus, ma di cui ad oggi la potenza mondiale orientale non si è ancora mai scusata.
Il ritardo del governo cinese nel comunicare alle organizzazioni internazionali la presenza a Wuhan di un nuovo e anomalo virus è ormai un dato di fatto. Solo, infatti, il 31 dicembre 2019 arriva all’ufficio di Pechino dell’Oms la notizia di una “strana polmonite” sviluppatasi nel “wet market” di Wuhan, ovvero in uno di quei mercati di animali vivi già ritenuti possibili focolai di sviluppo del precedente Sars-Cov1 del 2002. Tuttavia, ancora a fine 2019, le dichiarazioni si limitavano a parlare di una polmonite anomala: solo il 9 gennaio 2020 infatti Pechino parla esplicitamente di “nuovo coronavirus”. Da lì a qualche settimana, il 30 gennaio, l’Oms avrebbe dichiarato lo stato d’emergenza internazionale.
Le conseguenze inestimabili di questo silenzio purtroppo hanno pesato sull’intero pianeta, in primis in termini di vite umane, ma anche dal punto di vista economico. È infatti innegabile il danno che le autorità cinesi hanno causato alla popolazione mondiale tacendo quanto stava succedendo già a novembre nella provincia di Wuhan. In quei mesi il virus, che ad oggi ha contagiato 32,7 milioni di persone in 188 paesi e ucciso 991.224 in tutto il mondo, ha potuto diffondersi liberamente non solo all’interno dei confini cinesi, ma nel mondo intero.
L’aumento dei voli a gennaio 2020. In quelle settimane infatti le persone hanno continuato a viaggiare da e per la Cina: “solo nel mese di dicembre – si legge su Dataroom – e solo con l’Europa i voli sono 5.523 (dati Eurocontrol)”. Parlando più da vicino della situazione italiana, nel nostro paese sono stati ben 579 i voli a gennaio da e per la Cina, per un totale di 103.394 passeggeri in movimento. Ma, a rendere ancora più colpevole il silenzio del paese guidato da Xi Jinping è stata la firma lo scorso 13 gennaio, quando ancora il nostro paese era all’oscuro di tutto, dell’accordo con l’Italia di un memorandum per aumentare lo scambio aereo tra i due paesi, fino a 164 voli settimanali per parte, di cui 108 con decorrenza immediata.
La soppressione dei diritti civili dei suoi cittadini è però forse la responsabilità maggiore del governo cinese, una linea politica che quest’ultimo ha perseguito e persegue tutt’ora nei confronti di molteplici categorie di persone. Purtroppo, ne sono state vittime anche i cittadini che hanno provato a denunciare la verità relativa al Coronavirus: esemplare in questo senso è stato il caso di Li Wenliang, l’oculista cinese tra i primi medici a riconoscere e denunciare la pericolosità del nuovo Coronavirus. È stato infatti proprio a causa del suo impegno nella diffusione delle verità da lui scoperte sul suo blog personale che Wenliang è stato convocato e ammonito dalla polizia di Wuhan, poco prima di contrarre lui stesso il virus e restarne vittima.
Ma, anche a pandemia universalmente riconosciuta, le autorità cinesi continuano ad esercitare il loro potere a danno di chiunque si opponga alla loro leadership attraverso censure e arresti (nel migliore dei casi): “l’assenza in Cina – si legge ancora su Dataroom – della libertà di parola e di espressione ha favorito il diffondersi del contagio” ha infatti dichiarato il giurista dell’Università di Pechino He Weifang, riprendendo le parole del suo collega Xn Zhangrun, arrestato – e poi rilasciato – proprio per aver criticato il modus operandi di Xi