Il Mezzogiorno tra il 2007 e il 2017 ha perso più di 600mila giovani di cui 240mila laureati. Basti pensare che nel solo 2017 sono emigrati 35mila laureati. I dati, di fonte Svimez, stimano per questo una perdita finanziaria complessiva di circa 30 miliardi di euro nei 10 anni presi in considerazione. Ma oltre al danno economico, per il Sud pesa anche la sostanziale perdita di capitale umano: nei primi anni del 2000, infatti, quando i giovani puntavano sul sapere e il Mezzogiorno sembrava teso all’accumulo di capitale umano, si poteva ben sperare in un recupero del numero di laureati per abitante (che ci vede molto al di sotto della media Ocse) ma ad oggi, stando così le cose, il meridione sembra trovarsi in ulteriori nonché gravi difficoltà.
A gravare sulla questione dell’abbandono degli atenei al Sud, è poi anche la cosiddetta “emigrazione precaria” o il “pendolarismo di lungo raggio” che, se è vero che non implica il trasferimento di residenza, annualmente riguarda comunque, secondo le statistiche, ben 100mila ragazzi tra laureati e diplomati. L’emigrazione per lavorare è così anticipata al momento della scelta universitaria anche a causa di politiche che hanno per lungo tempo penalizzato e ancora oggi pongono in condizioni sfavorevoli gli atenei meridionali.
Ma non è finita qui perché, allargando la visione a livello nazionale, stando al rapporto tra immatricolati e diplomati, nei primi anni 2000 questo si attestava al 70% mentre oggi il calo è notevole sia nel Mezzogiorno che al Centro-Nord registrando una perdita degli immatricolati rispettivamente del 15% e del 10%. Questa perdita, naturalmente, riguarda maggiormente i meno abbienti che hanno risentito dell’aumento delle spese e delle tasse universitarie. Basti pensare che, secondo i dati Miur, la retta media dal 2007 al 2017, è passata da 700 a 1178 euro. A questo si aggiunge la sempre più debole garanzia alla formazione in termini di borse di studio e investimenti formativi in generale che hanno contribuito all’abbandono.
Tra i meridionali che intraprendono un percorso universitario, il 23% sceglie un ateneo del Centro-Nord. Nell’anno accademico 2017/2018, ad esempio, – sempre facendo riferimento ai dati dell’associazione diretta da Luca Bianchi – si sono iscritti all’università 675mila ragazzi residenti nel meridione. Di questi, però, solo 501mila ha scelto di intraprendere il proprio percorso accademico in una università del Sud, mentre oltre 170mila ragazzi hanno ritenuto opportuno raggiungere altri atenei diventando migranti universitari. Un saldo negativo per gli atenei del meridione che vede la quota maggiore di giovani sudisti iscritti alle università del Centro-Notd in Basilicata (43,7%) seguita dalla Puglia (31,9%), dalla Calabria e poi dalla Sicilia e dalla Sardegna. Chiude la classifica la Campania che registra un saldo migratorio pari al 14,2%.
La conseguenza del fenomeno sopra descritto è chiara e non lascia scampo: l’impatto negativo e la perdita finanziaria per il Mezzogiorno, stimato dalla Svimez in circa 1 miliardo l’anno per quanto riguarda gli effetti diretti e in 2 miliardi per quanto riguarda gli effetti indiretti quali le spese ed i consumi privati, provoca un trasferimento di ricchezze dal Sud al Nord stimato complessivamente in 3 miliardi di euro l’anno. Si instaura così un circolo vizioso per il quale, la debolezza di cui il Sud è vittima determina l’emigrazione universitaria che a sua volta provoca una riduzione dei finanziamenti alle università del Sud ma anche a tutto il suo sistema sociale e economico produttivo in generale. Così, il meridione continua a trovarsi ancora e sempre di nuovo relegato alla cosiddetta “questione meridionale” cui tutti sappiamo cosa si intenda e quali siano gli aspetti problematici nonché deficitari che si trascina dietro.
È possibile un’inversione di tendenza? La soluzione potrebbe essere spezzare questo circolo vizioso investendo sulla qualità dell’apprendimento, che ad oggi diminuisce sensibilmente a mano a mano che ci spostiamo al Sud, e sul sistema educativo in generale. Ma anche allargando lo spettro di azioni mirate e concrete incentivando nuove politiche industriali nonché la crescita e il potenziamento di infrastrutture e servizi.
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