Corrado Cingolani è HR Manager, certificato Aidp/RINA. Professionista appassionato delle Relazioni Industriali e delle Risorse Umane ha ricoperto varie posizioni organizzative, con crescente responsabilità, in contesti industriali e servizi, sia nazionali sia multinazionali. In qualità di Responsabile Gestione Risorse Umane, Relazioni Industriali e Normativa, ha gestito processi di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale. È componente del Direttivo AIDP Lazio, referente per la Certificazione delle Competenze HR. Attualmente Responsabile Relazioni Sindacali in Atac SpA, svolge attività di docenza presso ISPER FORmazione, Almalaboris Business School, oltre ad essere consulente nel Progetto Lavoro agile per il futuro delle PA.
Atac S.p.A. è l’azienda del trasporto pubblico di Roma. Primo operatore della mobilità urbana in Italia, l’Atac è una delle più grandi realtà di gestione del Trasporto Pubblico Locale in Europa. Atac gestisce, infatti, ogni forma di mobilità collettiva dell’area metropolitana di Roma Capitale: mezzi di superficie, metropolitane e ferrovie, fino alla gestione dei parcheggi di scambio e della sosta tariffata su strada. In Atac lavorano 11.261 dipendenti (1.343 le donne, 9.918 gli uomini). Oltre la metà, con ruoli e professioni diversificati, si relaziona quotidianamente con l’utenza per la gestione e la fruizione di un trasporto pubblico dove la qualità e la sicurezza del servizio sono i principali driver di riferimento.
Come sta cambiando la figura del direttore del personale rispetto alla rivoluzione epocale che stiamo vivendo nella società, nell’economia e nel mondo del lavoro? Si tratta di un ruolo chiave per gestire questa fase di cambiamento e transizione verso l’era della robotica e dell’intelligenza artificiale? Chi, come me, ha respirato l’aria dell’“Ufficio del Personale” fin dalla fine degli anni ’80, ha visto una continua trasformazione del ruolo, da Padre/Padrone sicuramente troppo invasiva e successivamente ad una lenta e inarrestabile evanescenza del ruolo stesso, provocata a mio avviso da una mancanza di visione prospettica che ha costretto il “Capo del Personale” in una posizione sempre più lontana dalla strategia dell’organizzazione. Il mondo HR da qualche anno si sta interrogando su come riprendere ad esercitare un ruolo trainante nelle odierne organizzazioni ed in generale nel mondo del lavoro, mentre questa rivoluzione, elemento di cesura tra un’epoca industriale ed un dopo in discontinuità con il passato, sta generando un terreno incerto. Su questo terreno inesplorato deve essere colta l’opportunità per evolvere, partendo dalla concezione stessa del ruolo HR. Senza cadere nelle banali e scontate affermazioni, dobbiamo dare sostanza al concetto di “Persona al centro”. Con la pervasività della tecnologia e della digitalizzazione nelle organizzazioni, dovranno rinnovarsi le competenze, ma ancora più centrale sarà un diverso approccio, per il quale dobbiamo pensare ad una innovata modalità di relazionarsi; risiede qui la centralità della Persona, che ha la duplice veste, sia di soggetto dell’azione di cambiamento e sia di “Agente attivo del cambiamento stesso”. In questo processo vedo la posizione di guida dell’HR@volution che, per sua competenza distintiva e sensibilità di relazionarsi con le Persone, lo pone come agente abilitante del processo di trasformazione, in un contesto multidisciplinare e condiviso con le altre funzioni, come IT, Comunicazione, ecc.
Il tema del benessere in azienda è molto diffuso. Come si realizza in concreto e quali sono le leve da attivare? “Stato emotivo mentale fisico sociale e spirituale di BEN-ESSERE, che consente di raggiungere e mantenere il potenziale personale nella società”. Se proviamo a partire dalla proposta di definizione della Commissione Salute dell’Osservatorio europeo e politiche per la salute, comprendiamo la dinamicità dello stato di benessere che contempla lo stato di equilibrio tra i piani enunciati. L’obiettivo deve essere quello di abilitare le persone ad essere libere per raggiungere il benessere, pensando un nuovo contratto sociale tra persona ed organizzazione; maggiore responsabilizzazione nel raggiungimento degli obiettivi aziendali commisurata una maggiore libertà di azione con un idea di essere “imprenditore di se stesso”. Una rinnovata e reciproca fiducia che permette alla persona di realizzare i propri propositi producendo un valore aggiunto per gli obiettivi aziendali. Gli strumenti da mettere in campo sono molteplici e dovranno agire sulla cultura dell’organizzazione, aperta la cambiamento, dinamica, che sappia agire proattivamente al mutevole ambiente in cui essa stessa opera, soddisfacendo così le necessità delle proprie persone.
Il welfare aziendale è uno strumento di grande attualità che si sta sviluppando in modo capillare soprattutto negli ultimi anni. Tramite questi strumenti l’azienda ottiene una molteplicità di benefici con ricadute positive anche a livello sociale. Che ne pensa? Il welfare, mi permetto di dire, che più che essere di grande attualità è molto di moda e come tutte le mode ha la sua ciclicità. Vogliamo parlare di possibilità di gestione di asili nido, scuole materne, mense, lavanderie interne, gruppi aziendali ludico/sportivi per far sì che i dipendenti riescano a trovare servizi utili e dare spazio ai loro interessi extra lavorativi? Ecco, chi ha conoscenza di cosa è accaduto fino ai primi anni ’80 nelle grandi strutture organizzative statali, come per esempio le manifatture dell’Amministrazione Autonoma Monopoli di Stato, sa perfettamente che la gestione di attività utili alla vita dei dipendenti erano alquanto efficienti e capillari. Ora, l’attuale introduzione avvenuta nel periodo di crisi economica che ha colpito molte aziende, ha fatto sì che il welfare sia stato visto, soprattutto da parte dei dipendenti, come uno strumento di abbattimento / riduzione dei costi. Per una organizzazione che vuole generare benessere, questa non può essere una buona pratica e considerato che oggi il welfare sociale non riesce più a soddisfare i fabbisogni di servizi dei dipendi è necessario che sia implementato nel sistema di “total reward”. Parlando di retribuzione totale, infatti, non si può prescindere da considerare anche il welfare, sia esso di origine unilaterale che contrattuale. Un sistema che risponda alle esigenze di chi compone l’organizzazione, le persone, con l’auspicio che l’attuale sistema fiscale possa riconoscere, oltre che confermarne i benefici, lo sforzo delle aziende nel proporre servizi e quello dei collaboratori che convertono parte della propria retribuzione in servizi, il tutto in un circuito virtuoso che supporti il sistema sociale del nostro paese.
La dimensione spazio-temporale del lavoro e della sua organizzazione stanno cambiando. Il tempo e il luogo di lavoro sono sempre meno vincolanti, anche se non per tutte le realtà. Parliamo di smart working e di work-life balance. A che punto siamo? È cambiato il paradigma del lavoro, non parliamo più di prestazione in un tempo e luogo stabiliti, ma di risultato della prestazione stessa, ovvero ci focalizziamo sugli obiettivi. Ho già accennato ad un nuovo patto sociale, ad una rinnovata fiducia reciproca tra persona ed organizzazione. In questi giorni in cui l’emergenza “nuovo coronavirus”, ha messo in crisi il mondo economico e del lavoro, tutti sono diventati anche esperti di forma alternative di lavoro, tra cui lo smart working. Lo smart working, il lavoro agile, non è lavoro semplice. Stiamo parlando di un approccio culturale ed organizzativo che non si realizza con il semplice lavorare da remoto. Un contesto organizzativo dove, a mio personale giudizio, possiamo superare il concetto di work-life balance con un concetto di integrazione. Provo a spiegarmi meglio, oggi se la tecnologia è una ottima piattaforma sulla quale la persona può sviluppare le proprie competenze tecniche e digitali per raggiungere obiettivi, l’organizzazione da parte sua, può abilitare i propri collaboratori ad avere una maggiore autonomia nel raggiungimento degli obiettivi. In un siffatto sistema, la persona avrà una maggiore responsabilizzazione e genererà valore aggiunto verso gli obiettivi aziendali; acquisirà così una maggiore libertà, riappropriandosi del proprio tempo e degli spazi. In tal senso lo strumento dello smart working è utile affinché l’integrazione tra vita e lavoro divenga, all’interno di una quadro di regole condivise, una fruizione a disposizione delle persone. Certamente le organizzazione non sono tutte allo stesso livello di prontezza, ma d’altro canto anche le persone non sono sempre tutte capaci e preparate per questa evoluzione di cultura lavorativa. Molti progetti nel mondo privato e sempre più del mondo pubblico, stanno portando buoni risultati di attivazione di questa nuova modalità di lavoro, maggiori difficoltà sembra siano riscontrabili nelle organizzazioni più piccole che restano sempre troppo spesso a fare i conti con le criticità economiche, non riuscendo a cogliere anche questa opportunità di cambiamento.
Nell’economia della conoscenza le risorse principali su cui investire e che rappresentano un vantaggio competitivo sono i talenti. Alcuni consulenti di McKinsey nel lontano 1997 hanno teorizzato addirittura la “guerra dei talenti” tra le aziende. Oggi parliamo di giovani talenti che appartengono alla generazione dei Millennials ma anche alla Generazione Z. Come si attrae e trattiene un talento e perché è così importante? Ma cos’è il talento oggi? Dobbiamo veramente cercare talenti in una disciplina specifica o piuttosto attrarre persone che hanno il” talento” di appassionarsi e di perseguire tenacemente la migliore performance? Un aneddoto di questi giorni; lo scorso 24 febbraio, in occasione della commemorazione per la scomparsa della stella del basket NBA, Kobe Bryant, un commosso Michael Jordan (altro mito NBA) ricordava le telefonate che riceveva alle 3 di notte del più giovane Kobe, per parlare dei dettagli di alcuni specifici movimenti offensivi. Era un indiscusso talentuoso giocatore, eppure con spasmodica attenzione chiedeva, a chi vedeva migliore di lui, come perfezionare alcune azioni. Oggi, che il cambiamento viaggia a ritmi vertiginosi, è necessario incontrare persone che abbiano capacità di innovarsi mantenendo competenze solide utili ad essere pronte a modificare approccio in una organizzazione che è sempre più liquida. La sfida delle organizzazioni che presentano anche cinque generazioni a confronto è l’integrazione, utile perché le diversità diventino un elemento di valore e le competenze distintive dell’organizzazione possano essere sviluppate con una visione permeata dalle competenze digitali. Importante, pertanto, sarà investire tempo e risorse per promuovere il proprio employer branding, innovare il proprio sistema di recruitment con l’obiettivo di istaurare una relazione con potenziali nuovi collaboratori, in linea con la propria cultura organizzativa e che abbiano sempre la curiosità e la dedizione per innovarsi.
La robotica e l’intelligenza artificiale stanno progressivamente trasformando l’azienda e il lavoro. In che modo stanno cambiando anche l’attività della funzione HR? Ci sono già diversi ambiti di applicazione come per esempio nella fase di selezione del personale? È innegabile che l’intelligenza artificiale stia avendo un impatto anche nella gestione delle risorse umane. La domanda di fondo, tuttavia, è fin dove può arrivare tale processo. Il mondo HR si sta interessando al Data science; si diffondono processi di HR Analytics con l’obiettivo di fornire e analizzare le statistiche necessarie per gestire con efficienza le risorse umane all’interno di una organizzazione aziendale. Sicuramente l’intelligenza artificiale e la stessa robotizzazione dei processi possono migliorare l’efficienza di diversi ambiti della selezione, soprattutto quelli più ripetitivi – e far guadagnare tempo – ma non potrà mai sostituire il processo di selezione e valutazione umana dei candidati. L’impatto della tecnologia può essere utile per agevolare un abbattimento sicuramente del tempo e della “massa” su cui si può lavorare e quindi utile ad integrare quelle che sono le abilità dell’uomo. Non va dimenticato l’avvento del social-recruitment, sviluppato in concomitanza con la diffusione del web e, in particolare, dell’e-recruitment, è chiaramente collegato ai social network che rappresentano importanti canali per individuare i migliori candidati da ingaggiare e attraverso il quale avviene una vera e propria fusione tra emplolyer branding e personal branding. Non dimentichiamo però che la decisione finale sui candidati rimane un imprescindibile fattore umano.
L’azienda, a volte, si trova di fronte la necessità di procedere a licenziamenti collettivi. Come si gestisce questa fase critica? Con professionalità e rispetto per le persone. Sono momenti difficili che si affrontano nel miglior modo se si è costruito precedentemente un terreno collaborativo. Questo non eviterà aspri dibattiti ma permetterà di risolvere momenti conflittuali con la certezza che ognuno ha operato per la migliore soluzione. In queste situazione la funzioni HR svolgono un ruolo molto particolare dovendo raggiungere gli obiettivi aziendali contemperandoli con l’impatto sociale che tali fasi di riduzione di organici provocano. Una forte competenza riguardo gli strumenti gestionali utilizzabili, permetterà di rendere efficace la propria azione. La risoluzione del rapporto di lavoro, rappresenta “l’extrema ratio” nella soluzione di qualsiasi situazione di crisi, dobbiamo sempre chiederci se c’è una strada alternativa e conservativa delle competenze aziendali e delle persone. Va predisposta una accurata analisi di sostenibilità di piani formativi per riqualificare le persone, di sospensioni temporanee della prestazione utilizzando gli opportuni ammortizzatori sociali. Dobbiamo poter dire di aver indagato ogni possibilità sostenibile prima di avviare una procedura di licenziamenti collettivi.
Le relazioni sindacali in questi anni sono molto cambiate. La dimensione aziendale è sempre più importante. Quali sono gli elementi di innovazione che vede o che auspica nelle relazioni industriali? Le relazioni devono profondamente cambiare, come conseguenza del cambiamento della società e del diverso modo di relazionarsi determinato anche dalla disintermediazione della tecnologia. Il mondo del lavoro è fortemente modificato e la forma di “dialogo” quali sono le relazioni sindacali devono necessariamente innovarsi nel contenuto e nella forma. L’evoluzione tecnologica ha modificato i processi e conseguentemente i paradigmi del rapporto di lavoro; le aziende non cercano più dipendenti che svolgano attività in una logica di “catena di montaggio”, con bassa professionalità, facilmente rimpiazzabili e legati dal sinallagma prestazione/retribuzione. Oggi cerchiamo persone che sappiano agire un ruolo legato al raggiungimento ai risultati ed agli obiettivi. Utilizzo nuovamente il termine responsabilizzazione, perché tali persone lasciano la “confort zone” dei processi produttivi con attività semplici, rutinarie ma che garantiscono retribuzione sicura e certa e chiedo di dedicarsi a processi che li pongano come soggetti attivi e non più come meri esecutori. Ma senza nessuna forma di partecipazione dei collaboratori alla modalità di organizzazione di questa nuova flessibilità, si rischia di generare una atteggiamento di resistenza verso la variabilità della retribuzione. Ma non solo, oltre alla reciprocità, la partecipazione deve avere come fine, l’efficienza del sistema dove alle persone verranno richieste sempre maggiori competenze e di essere professionalmente pronte a riqualificarsi, lasciando le attività più operative. Ma in questa ottica, il personale sempre più competente e strategico per l’organizzazione – sempre meno verticistica – causerebbe molti più problemi gestionali se il tutto non fosse incardinato nella partecipazione. E’ necessario che gli attori delle relazioni industriali si aprano a sperimentazione di modelli di partecipazione, senza pesare che basti una legge per attivarla. Scrollandosi di dosso quella vecchia coltre di vetustà ed inadeguatezza, le relazioni industriali potranno conquistare il giusto ruolo di strumento abilitante verso il futuro per organizzazione e persone.
Se fosse Ministro del Lavoro quale sarebbe il primo provvedimento che promuoverebbe? Sarebbe più facile dire quale formazione della Nazionale italiana metterei in campo, mi dovrò accontentare di essere Ministro per un attimo. Proverei a chiudere il cerchio virtuoso della “flexsicurity”, un equilibrio tra politiche passive di sostegno al reddito e politiche attive. Considerando che negli ultimi anni si è assistito ad una progressiva “precarizzazione” del rapporto di lavoro, sia con l’introduzione delle normative nel mondo del lavoro dal 2014, sia soprattutto con la crisi economica che ha reso debole il tessuto imprenditoriale italiano, la “stabilizzazione” del lavoro non è più dato dall’occupazione ma dall’occupabilità di ogni persona. E’ la professionalità della persona a renderla stabile nel mondo del lavoro, la professionalità intesa come forti competenze e continua tendenza al cambiamento. Sto riferendomi alle politiche attive che favoriscono l’effettiva ricollocazione del lavoratore, tramite percorsi personalizzati e utili all’acquisizione di nuove competenze. Attivare fattivamente centri di formazione e ricollocazione per creare sinergie efficienti, migliorare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro, oltre a una definizione di incentivi alle assunzioni. Gli obiettivi da porsi sono: Occupabilità: migliorare le capacità di un individuo di inserirsi nel mercato del lavoro; Adattabilità: aggiornare le conoscenze individuali per renderle compatibili con le esigenze del mercato; Imprenditorialità: sviluppare qualità e spirito imprenditoriali per avviare un’azienda e contribuire all’autoimpiego; Pari opportunità: favorire politiche di uguaglianza per aumentare i tassi di occupazione femminile.
Infine, una domanda personale. Come e perché si decide, ad un certo punto della propria vita, di diventare direttore del personale? La questione non è perché si decide di diventare, ma perché si decide di continuare. Nel mio caso è iniziato per caso dopo aver dato la mia disponibilità ad aver voglia da imparare. Continuo ad occuparmi di persone perché mi spinge la passione per le relazioni umane e la curiosità di imparare dalle esperienze. E’ un ruolo che mi permette di essere al dentro, poter essere un ponte che unisce diversità di vedute e mi rende promotore di sinergie per creare valore aggiunto nel lavorare in gruppo. Continuo nella mia carriera perché mi aiuta a crescere anche come persona, da quando il mio ex Direttore e grande amico Antonio, mi ha insegnato a volare con le mie ali; di questo gli sarò eternamente grato.