Dire “start up” oggi fa quasi tendenza, ma qual è la realtà? È davvero tutto rose e fiori come traspare dal pensiero comune sulle cosiddette imprese innovative? Attraverso il libro “Start Down – la crisi dei miti digitali e il risveglio dell’innovazione” gli autori Gabriele Colasanto e Marco Rossella, come spiegano anche nell’intervista, mettono in discussione i miti dell’innovazione attraverso un punto di vista ironico e documentato. Il loro obiettivo è quello di far ripensare al modo di fare impresa in Italia con l’invito a ripartire dalle basi autentiche per tornare a creare economia reale.
Gli autori. Per diversi anni, lavorando anche nel settore dei media e della comunicazione, Gabriele Colasanto e Marco Rossella sono stati Consulenti di Direzione in The European House- Ambrosetti. Successivamente Gabriele è entrato nel mondo del digitale prima in Banzai ed ePRICE muovendosi tra sviluppo del business e vita da società quotata. Marco, invece, da più di 4 anni lavora in Audiweb e collabora alla realizzazione di un progetto di sviluppo per la misurazione dell’audience online.
Da dove è nata l’idea di scrivere questo libro? Start Down è il tentativo di vedere cosa resta davvero del mondo digitale e delle startup in Italia una volta eliminata la retorica del “diventa imprenditore di te stesso” e il fumo del giovanilismo imprenditoriale. In Italia si parla di startup da almeno 10-15 anni. Spesso con un approccio tra il mitologico e il trionfalistico. Se da un lato le opportunità connesse a questo sistema hanno generato molto fermento, dall’altro la frammentazione di queste iniziative e lo scarso sostegno da parte di privati ed istituzioni determinano oggi un risultato con più ombre che luci, in ritardo rispetto ai competitor europei: le cosiddette “startup innovative” in Italia sono quasi 10.000, generano scasa produzione e – nei pochi casi virtuosi – pochi utili e non creano occupazione (esclusi i numerosi CEO e founder di startup che tutti abbiamo fra i nostri contatti di LinkedIn). Il libro nasce dalla osservazione e dalla voglia di prendere un po’ in giro questa contraddizione, per sostituire “al marketing delle startup” una narrazione più critica e ragionata.
Quel è il messaggio che intendete trasmettere? Nel nostro paese si deve parlare più di innovazione e meno di startup. Le startup sono un mezzo, non un fine. Se questo mezzo non funziona, va modificato. Ad una startup generalmente si da tempo 4-5 anni per raggiungere uno sviluppo ed una solidità sufficiente per tentare il salto nella categoria dei “grandi”. Se dopo 7 anni dalla ratifica della definizione di “startup innovativa”, il sistema in Italia non ha ancora raggiunto una diffusa maturità e le nostre startup producono in media 3 posti di lavoro, significa che “la fase di startup delle startup” in Italia ha fallito. Il sospetto è che parte della responsabilità sia da attribuire alla ostinazione ad imitare modelli di oltreoceano (es. Silicon Valley), ormai vecchi ed essi stessi evoluti verso altre forme. L’invito è quindi a ripensare al modo di fare impresa in Italia, ripartendo dalle basi e dai mercati su cui si fa innovazione nel nostro Paese. Un’innovazione non per forza digitale che può richiedere tempi di gestazione superiori al “mito della exit in 4 anni” e – necessariamente – capitali maggiori di quelli necessari a sviluppare una app intelligente.
Una delle affermazioni più forti del libro è che il sistema della start up non produce più da 15 anni aziende capaci di inventare nuovi paradigmi a livello mondiale. Ci spiegate meglio questa affermazione? Le start up sono morte da tempo e in Italia non ce ne siamo ancora accorti? Non sono morte, sono cambiate. I miti americani dei GAFA (Google, Amazon, Facebook, Apple) hanno tutti ormai più di 15 anni. Queste quattro aziende dominano un mercato digitale che non appare più “democratico” e terra di conquista per tutti, ma un contesto iper saturo, campo di battaglia fra i big player, dove per i new comers è difficile farsi largo senza essere cannibalizzati o sostenere costi all’ingresso molto più alti rispetto a 15 anni fa. Solo negli Stati Uniti aziende che perdono un sacco di soldi come Uber, fondata ormai nel lontano 2009, possono pensare di quotarsi in Borsa a valutazioni miliardarie. Inseguire in Italia questi modelli si è rivelata una scelta purtroppo perdente, per vari motivi di cui parliamo nel libro.
“Start down”, perché la scelta di questo nome? Cosa vuol dire? Il nome strizza l’occhio a chi desidera sentir parlare di startup in modo differente e critico rispetto alla più tradizionale vulgata. Ma “start down a road” significa anche “intraprendere una strada, incamminarsi”. Ecco: la speranza è che anche l’Italia trovi la strada giusta per valorizzare le tante opportunità connesse a questo nuovo modo di creare Impresa, meno collegato magari al fare soldi e più collegato all’idea di crescita e innovazione.
Una volta c’era il mito del posto fisso e del lavoro in banca, poi per le generazioni dei nativi digitale è arrivato il turno delle start up. E adesso? Secondo un recente studio in Francia attualmente più della metà degli studenti universitari pensano di creare una startup. In Francia però Macron e Xavier Niel (il fondatore di Iliad) hanno anche concentrato tutte le energie su Station F, il più grande campus di Startup a livello mondiale. In Italia non ci sono abbastanza soldi, né privati né pubblici (e se ci fossero solo pubblici, non avremmo comunque risolto il problema). L’unica possibilità è che il tessuto delle medie imprese tradizionali trovi il modo di dialogare in modo non solo opportunistico con gli startupper di casa nostra, portandosi in casa l’innovazione che queste micro imprese sono in grado di generare, investendo e indirizzandone la ricerca e sviluppo. Ma questo si riuscirà a fare solo con progetti di aggregazione come ad esempio KM Rosso, o facendo leva su alcuni poli di eccellenza come i Politecnici di Torino e Milano o l’Istituto Italiano di Tecnologia. Invece continuiamo a pensare che in Italia nascerà la nuova “Netflix di…” Auguri.
Quali sono i miti del sistema economico digitale da sfatare? Nel libro ne abbiamo passati in rassegna 9. Ne citiamo uno: “l’innovazione passa per il digitale”. Vero, ma difficile che i protagonisti del nuovo digitale a livello globale nascano in Italia. Potremo fare molte copie, ma difficilmente saremo l’originale in questo campo rispetto alle Google, alle Amazon, alle AirBnB. Invece se parliamo di robotica, di chimica, di innovazione applicata al food, le cose cambiano. Abbiamo tante eccellenze, nuove e vecchie, spesso nascoste. Perchè ad esempio dobbiamo importare dagli USA l’innovazione della carne vegetale di Beyond Meat, di cui stiamo parlando tutti in questi giorni?
Cosa vuol dire per voi “start up”? Possono rivelarsi efficaci per la crescita del nostro Paese? Significa avere l’opportunità di testare e sviluppare le proprie capacità imprenditoriali con alcune facilitazioni di accesso rispetto al passato. Ma non basta: se mancano i capitali e un sostegno serio da parte delle Istituzioni anche l’iniziativa migliore è destinata al fallimento o a decrescere una volta esaurito l’entusiasmo iniziale. L’attuale scenario politico si occupa ad intermittenza di questi temi, mentre privilegia una perenne campagna elettorale dove prima dei giovani di belle speranze vengono in realtà tutti gli altri portatori sani di voto.
Qual è la vostra idea di innovazione? Come coniughereste innovazione e impresa? La nostra idea di innovazione non passa necessariamente per il digitale e non deve essere solo ed esclusivamente a carico della iniziativa personale e privata. Le poche grandi aziende italiane devono sentirsi almeno altrettanto responsabilizzate su questo tema e non accontentarsi di spacciare la premiazione della “migliore startup” come iniziativa per l’innovazione. Tutte le startup italiane praticamente sono state “la migliore startup premiata” da qualcuno una volta nella vita, ma pochissime sopravvivono, e in genere sono quelle…che vanno all’estero. A Londra ad esempio, come Oval Money, o Soldo. Nel libro ospitiamo i contributi di 3 illustri opinione leader: Salvatore Majorana (Direttore del Parco Scientifico e Tecnologico Kilometro Rosso), Marco Grazioli (Presidente di The European House – Ambrosetti) e Luigi Serio (Professone di Economia e gestione delle Imprese presso l’Università Cattolica di Milano). Perché il modello della startup nostrana riscopra una relazione più stretta con le imprese nazionali, deve innestarsi sui settori su cui possiamo vantare le migliori competenze e un ecosistema unico: la robotica, la meccanica di precisione, la meccatronica, il farmaceutico. Un percorso un po’ diverso rispetto a sviluppare un’App per camperisti.
Perché l’Italia pensa “in piccolo”? Cosa potrebbe fare di più e di meglio per attuare un meccanismo di crescita efficace? Non è un problema di teste. I nostri ragazzi hanno ottime idee, al pari di quelli di altri Paesi. A volte anche più brillanti. E’ un problema di soldi. Troppo pochi, troppo diluiti in migliaia di progetti. Mancano capitali privati importanti. D’altronde perché un investitore americano dovrebbe investire in una startup italiana e non inglese? E c’è anche un problema di serietà. Troppi progetti nati intorno al marketing di questo mondo hanno avuto come scopo di far sentire sempre i nostri aspiranti startupper come cercatori d’oro, per far diventare ricco solo chi si è messo a vender loro le pale per scavare. I Paesi più avanti di noi sul terreno delle startup hanno alcune caratteristiche comuni: minori prelievi fiscali sui profitti, una domanda interna maggiore, un più sviluppato livello di digitalizzazione, minore corruzione e una qualità della vita migliore anche per effetto di una minore disuguaglianza sociale.
“Fondiamo una start up e diventiamo ricchi”, questo il titolo di un capitolo del vostro libro. Perché si è creato questo falso mito sulle start up? Qual è l’elemento che tanto rende piacevoli e attraenti queste organizzazioni? Si è creato perché – come si suol dire – “la storia la scrivono i vincitori”. L’epopea delle startup innovative di oltreoceano nate in un garage e diventate super potenze multinazionali è molto più attraente delle tante storie di fallimenti di cui questo sistema è costellato. L’idea che tuffarsi nel mare magnum delle startup digitali sia la soluzione alla propria insoddisfazione professionale da impiegato fantozziano rischia di creare aspettative che oggi – almeno in Italia – non sono suffragate da evidenze. Nel libro raccontiamo in modo un po’ romanzato le storie di Elon Musk e di Xavier Niel, sicuramente due eroi degli startupper di grande fascino e successo, la cui carriera però è costellata non solo di grandi picchi, ma anche di grandi cadute sia imprenditoriali che personali.