Intervista a Claudio Andrea Gemma, Presidente di ANIE Confindustria e una prestigiosa carriera che parte da Finmeccanica fino alla guida della Nidec ASI S.p.A., azienda leader nel settore dei complessi sistemi elettronici. ANIE è l’associazione principale delle aziende del settore elettronico e elettrotecnico in Italia, che conta 1.200 aziende associate per oltre 410 mila occupati. Si tratta di uno dei settori industriali italiani più avanzati con un fatturato di 56 miliardi di euro di cui 29 milioni di esportazioni. Le aziende associate rappresentano il 30% degli investimenti in Ricerca & Sviluppo dell’intero Paese. Abbiamo chiesto a Gemma come la crisi di questi anni ha pesato e cambiato il comparto dell’elettronica in Italia, quali le conseguenze occupazionali e soprattutto cosa dovrebbe fare il Governo Renzi per aiutare la ripresa.
La crisi economica di questi anni ha inevitabilmente colpito anche la Piccola e Media Impresa dal punto di vista dei livelli occupazionali. Da una vostra recente indagine si evince che le principali conseguenze hanno riguardato il cambiamento delle funzioni aziendali e un maggior utilizzo delle forme contrattuali flessibili e a tempo. In che modo, nello specifico, è cambiata l’organizzazione del lavoro? E’ diventata più flessibile e specializzata?
Non ci sono dubbi: da una ricerca condotta recentemente presso le aziende associate emerge che la crisi economica è stato il principale fattore che ha costretto a rivedere l’organizzazione delle risorse umane dell’azienda, lo sostiene il 36% delle imprese intervistate. Subito dietro per percentuali viene la trasformazione della domanda, elemento decisivo secondo il 22% delle aziende. L’organizzazione del lavoro si è senz’altro mossa verso le due direttrici della flessibilità e della specializzazione. Da un lato, allora, il contratto a tempo determinato è stato il più utilizzato nelle PMI ANIE, seguito però a ruota da quello a tempo indeterminato. Resistono le forme contrattuali destinate ai giovani che si avvicinano per la prima volta al mondo del lavoro, quindi tirocini e stage, ma le altre forme contrattuali, ancora più “libere”, sembrano funzionare poco nelle aziende ANIE. E qui si inserisce proprio il discorso sulla specializzazione del lavoro: le nostre aziende, che producono manufatti tecnologici all’avanguardia e ad alto valore aggiunto, sanno che il capitale umano è un asset immateriale imprescindibile. Solo individuando il talento e trattenendolo in azienda il know how tecnico acquisito potrà essere preservato per il futuro. Non stupisce, in quest’ottica, che le figure professionali più ricercate siano progettisti e tecnici specializzati.
Il perdurare della crisi economica riguarda, in questa fase, soprattutto la domanda interna che stenta a ripartire. Le aziende che ce la fanno sono soprattutto quelle che esportano sui mercati esteri. Le esportazioni italiane, infatti, vanno bene. Dal punto di vista delle professionalità coinvolte e del lavoro cosa cambia?
L’export è ormai a detta di tutti l’ancora di salvezza delle nostre aziende italiane, che devono fare i conti con una domanda interna sempre più fragile e che tale resterà se non si troverà il modo di stimolare una vera ripresa dei consumi. È stato calcolato che in cinque anni i comparti rappresentati in ANIE Confindustria hanno complessivamente registrato un aumento del fatturato estero pari a 20 punti percentuali, nel periodo 2009-2013. Nel quinquennio ANIE è stata al fianco degli associati, organizzando 12 missioni imprenditoriali, 11 partecipazioni fieristiche e 3 workshop internazionali, per un totale di più di 300 imprese partecipanti e 1.000 incontri con potenziali partner locali. A ciò si è aggiunto il ricco calendario di iniziative di questo 2014, non ancora concluso, articolato in venti appuntamenti in quattro continenti. Queste tendenze si riflettono anche sull’andamento del mercato del lavoro nel settore: nell’ambito della già citata indagine tra i soci, il 18% ha indicato l’internazionalizzazione come un fattore che ha inciso notevolmente sull’organizzazione delle risorse umane dell’azienda. Il 20% delle imprese ha segnalato di prevedere l’assunzione di export manager, figure professionali che sappiano fare dell’azienda un interprete d’eccellenza dei mercati esteri. Il loro compito? Quello di superare le barriere culturali che differenziano i mercati, adattando produzione e vendita ai canoni esteri.
Tra gli elementi di maggior competitività nei mercati internazionali ci sono gli investimenti in Ricerca& Sviluppo, innovazione e talenti. Sembra questo il giusto mix per poter competere. Nella Legge di Stabilità in via di approvazione sono previste alcune agevolazioni. Sono sufficienti?
La nostra Federazione è particolarmente sensibile al tema ricerca & sviluppo, perché le aziende di cui siamo espressione si caratterizzano per prodotti altamente all’avanguardia: non essere al passo con i tempi o rimanere indietro rispetto ai competitor significa chiudere bottega. Nonostante il clima di difficile congiuntura economica, il 70% delle nostre imprese ha dichiarato di aver effettuato investimenti nel primo semestre 2014 e oltre il 60% ne ha già programmati per la seconda metà dell’anno. Parliamo soprattutto di R&S in nuovi prodotti e di investimenti per l’acquisto di nuovi macchinari e attrezzature, con una percentuale interessante guadagnata anche dalla formazione del personale. In quest’ottica abbiamo accolto con grande favore la cosiddetta ‘Sabatini’, (legge che agevola gli investimenti in macchinari n.d.r) poi inclusa nella Legge di Stabilità, uno strumento che appare di semplice utilizzo e di grandi potenzialità per sbloccare i finanziamenti per le imprese che intendono innovare sotto il profilo tecnologico e strumentale. Per quanto riguarda invece il finanziamento vero e proprio alla ricerca mediante lo strumento del credito d’imposta, si tratta di una misura timida e insufficiente: occorre detassare completamente tutti gli utili reinvestiti dalle imprese in R&S. È necessario inoltre uniformare i criteri di valutazione dei progetti a livello nazionale e snellire le procedure burocratiche in questo ambito, per avere accesso ai finanziamenti pubblici. Solo così i settori ANIE non rimarranno un unicum nel panorama degli investimenti innovativi in Italia.
Lei è a capo di un’associazione di imprese del settore elettrotecnico e elettronico. Dai vostri dati sembra che il settore sia in salute, visto che l’80% delle aziende aderenti non prevede licenziamenti e oltre il 18%, invece, pensa a nuove assunzioni. Siete uno dei comparti produttivi italiani sui quali conviene investire di più anche in termine di politiche industriali e di creazione di nuova occupazione? Come?
Il nostro comparto industriale vive una situazione per molti versi paradossale: nel settore dell’elettronica si registra contemporaneamente il maggiore incremento della produzione a livello mondiale e il peggiore in Italia, legato alla stagnazione della domanda interna e alla crescente frammentazione delle catene produttive. A fine 2013 il fatturato aggregato dei settori ANIE ha mostrato un calo rispetto al 2012 dell’11,8%. In altri termini, in un solo anno il fatturato è passato dai 63 miliardi di euro del 2012 ai 56 miliardi di euro del 2013, perdendo ben 7 miliardi di euro. Quindi questi primi segnali che arrivano dalle nostre imprese sul fronte occupazionale sono senz’altro incoraggianti per il futuro che ci aspetta. Il primo semestre 2014 è stato comunque un momento difficile, mentre le PMI ANIE dimostrano una fiducia maggiore nel secondo semestre di quest’anno. Oltre alla grande positività registrata sul fronte del canale estero, però, le stime sull’anno che si sta per concludere sono contrastanti. È innegabile che il momento di difficoltà dell’industria italiana in generale, e dell’elettrotecnica e dell’elettronica in particolare, non è ancora finito. Dobbiamo avere pazienza, trovare nuovi stimoli dentro le nostre aziende (quale, ad esempio, lo sbocco sui mercati esteri) e sperare che anche interventi esterni possano contribuire a migliorare la situazione. E qui non posso che rivolgermi allora all’Esecutivo, perché continui sulla strada intrapresa con lo sgravio IRAP e la riduzione del cuneo fiscale.
La riforma del lavoro nota come Jobs Act è in dirittura d’arrivo. Qual è la sua opinione? Per la piccola e media impresa ritiene che sia necessario giungere ad un contratto di lavoro specifico, magari soprattutto per la piccola impresa, oppure il quadro che si sta delineando la soddisfa?
Penso che, nella genesi del provvedimento di riforma del mercato del lavoro, si sia perso tempo. Per esempio con le polemiche sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: si tratta in realtà di un falso problema. La sua abolizione e l’introduzione del contratto a tutele crescenti non risolve tutti i problemi. È lo Statuto dei Lavoratori nel suo complesso che, comunque, riflette un mondo e una società che non esistono più: in questo senso è allora utile riformarlo e rivederlo, aggiornandolo alle moderne dinamiche del lavoro. Le soluzioni vere devono guardare in tutt’altra direzione: eliminazione completa dell’IRAP, che è una tassa iniqua; detassazione degli stipendi, di modo che rimangano più soldi nelle tasche dei cittadini perché si risollevino i consumi; riduzione del cuneo fiscale e degli adempimenti burocratici a carico delle imprese, che sono ancora il vero ostacolo alle assunzioni. Ci sono nel Jobs Act delle misure sacrosante, che la nostra Federazione ha molto apprezzato: i tempi di rinnovo dei contratti a tempo determinato e la loro modifica senza causale e la smaterializzazione del DURC (Documento unico di regolarità contributiva), per citare degli esempi. Ma altri provvedimenti appaiono del tutto insufficienti a sostenere le esigenze di ripresa che il nostro Paese manifesta. Dal punto di vista della semplificazione delle forme contrattuali, per esempio, il Jobs Act non andrà a cambiare davvero il quadro normativo esistente. Ci riserviamo però di sospendere il giudizio fino all’emanazione dei decreti attuativi: solo sperimentando le nuove regole potremo capire se la cura è commisurata alla malattia.