Monica Parrella, dopo la laurea in Giurisprudenza, la specializzazione in studi e ricerche parlamentari e il dottorato in diritto della banca e dei mercati finanziari ha lavorato presso la Banca d’Italia e nel 2001 è stata assunta come dirigente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. È direttore generale dal 2006. Dal 2019 è Adjunt Professor presso la Business School della LUISS sui temi della leadership, delle soft skills e dello smart working
Non potrai mai cambiare le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un nuovo modello che rende il modello esistente obsoleto (Buckminster Fuller)
Siamo in continuo apprendimento e la faticosa esperienza della pandemia ce lo ha ricordato. Per diverso tempo, da quando è iniziata, ci siamo raccontati tante storie e ci abbiamo anche creduto: che era una banale influenza, che c’era troppo allarmismo, abbiamo usato la negazione perché tutto ciò ci è arrivato come un lutto, pensavamo di essere forti, e invece ci siamo scoperti fragili. Personalmente e managerialmente.
Il lavoro agile è stato una risposta efficace ad una emergenza inattesa che ha fatto affiorare una gestione manageriale insufficiente. Uno dei motivi della percepibile insufficienza è il fatto che fino ad ora molti dei programmi di sviluppo della leadership si sono concentrati sulle dimensioni del lavoro manageriale dal punto di vista operativo, tecnico, formale e meno a costruire una visione sistemica legata anche al coordinamento delle risorse, alla capacità di condurre le stesse, a realizzare gli obiettivi della struttura senza perdere di vista con chi si ha a che fare, e cioè con persone, che rispondono a input non semplicemente formali e sviluppare un approccio orientato alla costruzione di relazioni di fiducia, all’ascolto e a sviluppare consapevolezza di sé.
Dottoressa qual è la sua esperienza di leadership pubblica in un tempo di emergenza e di incertezza?
Naturalmente un’emergenza come quella che nessuno dei viventi ha mai vissuto prima, un’esperienza inedita non soltanto per la nostra generazione ma anche per quella dei nostri genitori, rappresenta un evento epocale. Tuttavia, dal punto di vista delle organizzazioni ha avuto l’effetto di accelerare cambiamenti che in realtà stavano maturando all’interno di quegli enti pubblici e privati che avevano già avviato una riflessione sull’obsolescenza dei tradizionali modelli manageriali.
La necessità di affrontare un’emergenza imprevista, sebbene non imprevedibile almeno secondo alcuni, ha messo obiettivamente a dura prova i classici strumenti di gestione manageriale. Cioè quelli costruiti esclusivamente sulla base di azioni e tempi predefiniti, programmati e pianificati. Chi sta uscendo bene da questo lungo periodo di crisi pandemica lo sta facendo attraverso un esercizio di leadership.
Sin da subito gli osservatori hanno individuato nella leadership la competenza, la skill indispensabile necessaria affinché le organizzazioni siano resilienti. In alcuni contesti grazie all’esercizio della leadership le organizzazioni si sono addirittura rivelate anti-fragili, capaci, cioè, non soltanto di resistere ai cambiamenti improvvisi intervenuti, e alla forte crisi che si è innescata, non soltanto di trovare la forza per reagire e adattarsi, ma addirittura per uscire dalla crisi più forti.
La gestione manageriale nel corso dell’emergenza non si è mostrata insufficiente soltanto laddove è stata accompagnata dalla capacità di leadership dei vertici e dei manager di porsi in collegamento anche empatico con le persone. Le organizzazioni che hanno avuto a cuore la cura dei propri dipendenti e la sicurezza generale, e non soltanto gli obiettivi definiti nella situazione precrisi, sono state quelle che poi hanno reagito meglio perché hanno saputo anche offrire un supporto emotivo ai dipendenti nel portare avanti le attività nonostante le difficoltà enormi del primo lockdown, e poi quelle successive connesse ai contraccolpi dal punto di vista dell’operatività per tante attività economiche.
La leadership che si può definire “empatica”, e di cui alcuni parlano come leadership gentile o leadership compassionevole, cioè quella esercitata dal leader che riesce ad interpretare i bisogni e gli stati d’animo degli altri guidando i propri team secondo la visione giusta sia per le persone e che per l’organizzazione, è la leadership che in questa situazione ha avuto un peso decisivo a mio avviso.
Ci sono state poi anche organizzazioni che hanno avuto la capacità, grazie probabilmente anche a riflessioni e processi avviati in precedenza, di utilizzare al meglio tutte le risorse di cui già disponevano, e non mi riferisco soltanto alle persone ma anche agli strumenti informatici e di collaboration, e di utilizzarli al meglio per uscire dalla crisi, innovare e addirittura provare ad entrare in nuovi mercati oppure svolgere attività in maniera diversa rispetto al passato. Ad esempio, nel settore pubblico, le amministrazioni più avanti sul terreno della digitalizzazione e dello sviluppo delle skills dei propri dirigenti hanno colto l’occasione per portare avanti processi già in atto, riuscendo a svolgere totalmente da remoto, in condizioni inedite, le stesse attività in precedenza svolte soltanto in presenza, dimostrando così di avere capacità di resilienza e in alcuni casi anche di anti – fragilità superiori alle aspettative.
I risultati migliori a mio avviso si sono poi registrati quando accanto alle capacità di leadership dei vertici e dei manager sono poi state fatte emergere, stimolando la capacità di innovazione dei singoli, anche leadership “dal basso”. I processi in molti casi non sono stati innovati dall’alto. La resilienza o la resistenza alla crisi non si è realizzata soltanto perché l’imprenditore, il capoazienda, o il direttore generale ha ben organizzato la struttura durante l’emergenza e ha mostrato doti di leadership. In alcuni casi, ha avuto un particolare peso chi dal basso ha avuto la capacità, la forza e la disponibilità di mettersi al servizio della propria organizzazione, ha aiutato colleghi e dirigenti e la propria struttura a non soccombere e a proseguire le attività.
È chiaro che ad essere avvantaggiate, in una situazione di necessità di immediata remotizzazione del lavoro, sono state le grandi organizzazioni e alcune pubbliche amministrazioni che stavano già sperimentando modalità flessibili di organizzazione del lavoro, già riconosciute nel settore pubblico dalla legislazione italiana dal 2015 e che con la legge 81 del 2017 ha assunto la denominazione di lavoro agile, definito più comunemente Smart working.
Nell’emergenza si è utilizzato il framework normativo esistente e dunque il cambiamento organizzativo è stato sicuramente più facile per molte grandi imprese italiane, o estere con sede in Italia, e per le pubbliche amministrazioni che erano già entrate nell’ottica di un modo diverso di lavorare rispetto a quello classico della costante presenza in ufficio e della timbratura del cartellino.
Questi due anni di pandemia hanno messo le persone e le organizzazioni di fronte ad una idea di normalità che andrà necessariamente rivista e ricostruita. In che modo ci si assicura che la “nuova normalità” sia diversa dalla precedente senza la necessità di doversi chiudere in paradigmi e produrre altri stereotipi?
Innanzitutto, bisogna capire che quello che c’è stato nel periodo peggiore del lockdown, cioè il lavoro da remoto, 5 giorni su 5, senza rientri in ufficio, è un modo di lavorare “limite” che è stato adottato durante il periodo dell’emergenza e che in queste forme “estreme” si adatta soltanto ad alcuni tipi di lavoro o alle situazioni di emergenza o di salute più gravi. Il lavoro da remoto come lo abbiamo conosciuto durante l’emergenza epidemiologica, o anche versioni superflessibili dello smart-working, probabilmente saranno soltanto residuali o comunque limitate ad alcune organizzazioni, in particolare quelle con interazioni con i clienti già prevalentemente da remoto o per categorie di personale rispetto alle quali l’interazione completamente da remoto è anche funzionale al business o alla retention del personale stesso. Sarà invece prevalente tra le organizzazioni che sceglieranno anche dopo il ripristino della piena normalità di garantire un certo grado di flessibilità nello spazio e nel tempo alle proprie persone la forma di lavoro “ibrido”. Da questo punto di vista in piena aderenza con il modello classico di smart working, di lavoro agile, previsto dalla la stessa legge del 2017, che comporta l’alternanza tra lavoro in presenza e lavoro a distanza, in un’ottica sempre di misurazione dei risultati e non della mera presenza fisica.
Naturalmente nelle piccole e medie imprese, che generalmente prepandemia non conoscevano o praticavano lo smart working, e all’interno di quelle organizzazioni in cui il modello manageriale è fondato più sulla presenza fisica piuttosto che sui risultati, l’adozione di modelli ibridi comunque fa un po’ a pugni con la voglia di “normalità”, cioè di tornare a come si lavorava prima dell’emergenza epidemiologica.
Tuttavia non sono neanche poche le organizzazioni che già avevano capito che attraverso la trasformazione digitale e l’utilizzo massiccio di strumenti di connessione con gli applicativi dell’ufficio una parte dell’attività avrebbe potuto, e concretamente veniva già fatta a distanza dalle persone, e che dunque, “costringere” le persone, tutti i giorni, alle stesse ore, ad essere tutti insieme in ufficio in fondo non rappresentava valore aggiunto ma anzi, come confermato anche da una serie di studi fatti pre pandemia, le persone che lavorano in smart working ,cioè circa 2/3 gg a settimana da remoto, portano valore aggiunto in termini di produttività, maggiore benessere organizzativo e minore assenze dal lavoro. D’altra parte, sono oggi decisamente molte di più rispetto al 2019 le imprese che hanno stipulato accordi sindacali sullo smart working.
A dicembre 2021 sono stati anche definiti protocolli nel settore privato e linee guida nel settore pubblico che hanno delineato i contorni organizzativi della nuova normalità. In particolare, questi documenti hanno messo in evidenza la necessità di disciplinare in maniera compiuta il c.d. diritto alla disconnessione. E’ infatti emersa con evidenza durante il lockdown la necessità di evitare il cosiddetto over working, l’eccesso di connessione da parte dei dipendenti, che porta stress e non porta certo produttività. Per questo motivo in particolare i sindacati hanno messo in evidenza la necessità di definire il periodo di disconnessione dei dipendenti in maniera da evitare che vi sia un eccesso di connessione e quindi che i lavoratori agili non soltanto non godano di un benessere ma subiscano un malessere.
Si tratta peraltro di un modello che presuppone capacità di svolgere in autonomia il lavoro. Non bisogna disconoscere che quello in smart working non è un lavoro per “tutti”, nel senso che presuppone un rilevante grado di autonomia, di responsabilità, di condivisione di obiettivi e di capacità di gestione a distanza del lavoro. Può peraltro essere una modalità di esecuzione della prestazione lavorativa non preferita da tutti i lavoratori né possibile per tutti i lavori: anche per questo la stessa la legislazione italiana rimette al lavoratore la libertà di scegliere di svolgere l’attività anche in modalità agile.
Bisogna però anche approfondire i motivi per cui la classe manageriale e molti vertici organizzativi fanno grande resistenza ad abbracciare un “new normal” che non sia equivalente al ripristino del modo di lavorare precedente alla pandemia. Il mondo è cambiato così come le priorità delle persone e non si può far finta di nulla. C’è stata una cesura netta tra il mondo del lavoro come lo conoscevamo e quello del presente. Negli Stati Uniti le organizzazioni che hanno provato a far tornare i dipendenti a lavorare come in precedenza, stanno pagando le conseguenze di un fenomeno che viene chiamato great resignation. Le persone piuttosto che ritornare a lavorare come prima, avendo capito in un periodo così duro quali sono le priorità, e quindi anche il valore del proprio tempo, hanno preferito in alcuni casi addirittura lasciare il lavoro senza paracadute piuttosto che ritornare a lavorare nello stesso modo in cui lo facevano prima dell’emergenza. In Italia si sta osservando un fenomeno un po’ differente. C’è molta meno mobilità lavorativa e territoriale. Negli Stati Uniti i lavori si trovano con più facilità, e l’economia è in piena ripresa. In Italia invece ancora dobbiamo tornare alla situazione economica pre-pandemia, però è chiaro che ormai in tutti i colloqui di lavoro uno dei temi che in particolare i giovani affrontano, se non lo affronta il datore di lavoro, è quello della flessibilità. Non esiste più un colloquio di lavoro in cui il tema della flessibilità nello spazio e nel tempo delle prestazioni lavorative non venga messo sul tappeto; e anzi alcune aziende puntano molto anche sulla capacità di attrarre i talenti e di trattenerli venendo incontro a questi bisogni evidentemente profondi, che la generazione più giovane esprime con forza. Le generazioni meno giovani, se non hanno alternative di scelta potranno anche decidere di mantenere un lavoro meno flessibile, ma i più giovani, se possono scegliere, oggi, e lo dicono una serie di indagini, scelgono anche lavori dipendenti meno retribuiti purché vi sia un margine di flessibilità maggiore.
Lo smart working non nasce soltanto nell’ambito delle misure per la promozione della conciliazione fra vita professionale e vita privata dei dipendenti, ma è prima di tutto un obiettivo di miglioramento organizzativo, di miglioramento della competitività e di responsabilizzazione dell’individuo. Cosa possiamo dire per aiutare quelle organizzazioni che stanno lavorando a questo nuovo modello a pensare ad un modello di organizzazione più agile, più orientato all’individuo?
E’ utile mettere in evidenza alcuni dati incontrovertibili. Maggiore flessibilità significa minore assenze del personale, vantaggi per le aziende in termini di riduzione dei costi fissi (locali, utenze) e poi, come detto, c’è il tema dell’attrazione delle risorse umane. Adesso il valore delle persone è più importante rispetto al passato perché abbiamo pochi giovani e ciò significa che le organizzazioni devono porsi il problema di valorizzare le proprie risorse e di trattenerle. Le organizzazioni che non risponderanno ai bisogni di flessibilità delle nuove generazioni è probabile che riusciranno a reclutare persone meno valide.
Bisogna poi che si comprenda anche che il modello classico di comando e controllo manageriale è definitivamente entrato in crisi. Se si passa da una logica della presenza ad una logica del risultato, ovunque lo si produca, è chiaro che questo fatto “riduce” il senso di potere sulle persone da parte dei manager e dei dirigenti. La resistenza che si registra in tutte le organizzazioni al lavoro agile non a caso è proprio nella dirigenza. Non tanto e solo tra le prime linee ma in particolare tra le figure manageriali intermedie, i capi delle divisioni che esercitano la propria leadership attraverso il controllo “a vista” delle persone. Cosa che già di per sé fa capire che si tratta di un modo antiquato di considerare il proprio ruolo di coordinamento. Bisogna fare in modo che i manager siano instradati su percorsi di consapevolezza su questi temi e che possano essere, essi stessi, veicolo di un cambiamento culturale nelle proprie organizzazioni fondato sulla fiducia nei propri collaboratori.
È necessario senz’altro un intervento importante a livello HR nella definizione dei principi generali di smart working di una organizzazione, nella consapevolezza che il modello di smart working vada personalizzato poiché va adattato alle mansioni da svolgere, alle dimensioni aziendali, alle preferenze e alle età delle persone coinvolte. Si tratta di ascoltare le persone e costruire un sistema il più possibile flessibile e adeguato mettendo insieme le esigenze dell’organizzazione con quelle con le persone.
Lei faceva riferimento alle Risorse Umane che hanno un ruolo fondamentale in questa partita. Come sta cambiando questo ruolo e come sarà in futuro? Nella mia esperienza l’ho sempre interpretato in modo attivo, propositivo, di sostegno, di guida. In questa nuova normalità quanto strategico sarà il ruolo delle risorse umane?
Sicuramente questo ruolo ha acquisito grande rilevanza nel periodo dell’emergenza e ci si è resi conto di quanto sia importante una buona gestione RU e una buona organizzazione
Il ruolo sta cambiando e cambierà, secondo me, perché si tratta di guidare una trasformazione organizzativa fondata sulla responsabilizzazione delle persone e un modo diverso di lavorare attraverso l’uso maggiormente efficiente della tecnologia. Spetterà alle RU definire un’architettura, fare una proposta operativa e dialogare molto con chi fornisce gli strumenti di supporto alle attività, per esempio informatici, e soprattutto con le singole strutture operative di base per definire insieme a loro i modelli di smart working meglio applicabili. Ritengo che non sia vincente un modello verticistico delle risorse umane, che decide tutto per tutti. Tuttavia, occorre dare linee guida precise alle strutture, che, in relazione a situazioni differenti all’interno di ciascuna U.O., possano essere specificamente declinate dai manager più vicini ai lavoratori.
Occorre che le Risorse Umane facciano capire alla dirigenza quanto sia importante l’ascolto attivo delle persone, spiegando ai manager che l’importanza del loro ruolo è direttamente connessa all’efficiente gestione delle persone che coordinano.
E’ poi importante che le Risorse Umane definiscano piani di formazione dei dirigenti mirati allo sviluppo di capacità diverse da quelle classiche, tecniche, formali; che puntino sullo sviluppo di capacità di coordinamento e valorizzazione delle persone, su competenze di leadership, valorizzando la necessità di utilizzare nel coordinamento dei team intelligenza emotiva e soft skills.
In che modo, secondo lei, la leadership aiuta le organizzazioni ad evolvere, anche attraverso l’apprendimento e il rafforzamento delle competenze?
Sicuramente la leadership aiuta perché i modelli contano, e contano soprattutto i modelli dei leader che riescono ad essere coach dei propri dipendenti. Cioè è importante che il leader aiuti le persone con cui collabora a far emerge il meglio di sé e a portarlo nell’organizzazione. Statistiche recenti evidenziano come le persone siano molto sottoutilizzate e pochissime, dicono le ricerche internazionali, in realtà pensano di dare tutto quello che potrebbero offrire alle proprie organizzazioni. Questo spesso accade perché le persone non sentono che qualcuno si aspetta da loro che diano il massimo. Il massimo di quello che hanno, non il massimo in assoluto. Quindi spetta al leader svolgere questa funzione di scouting dei talenti delle persone all’interno delle organizzazioni.
Tutto questo non è detto che i manager lo facciano. Anzi, normalmente non lo fanno. Non hanno studiato per essere coach dei propri dipendenti, né hanno praticato il coaching e spesso non ne hanno mai sentito parlare. Se le persone non fanno emergere sul lavoro tutte le proprie potenzialità questo accade semplicemente perché non ci sono leader che le valorizzino e le ispirino, che siano capaci di far emergere il meglio dalle persone.