Sofia Borri, 45 anni, è italo argentina, vive e lavora a Milano. Arriva in Italia con il papà ad appena 6 anni avendo perso la mamma da piccolissima. Laureata in Filosofia e Antropologia Culturale è consulente per organizzazioni del terzo settore sui temi dell’innovazione sociale, del welfare, dello sviluppo organizzativo e di mercato. Da sempre a fianco delle donne, speaker e formatrice sui temi dell’empowerment femminile, della rottura degli stereotipi e della sinergia vita lavoro. È mamma di Amanda e di Adele di 7 e 6 anni e compagna di Simone da 18 anni. Dal 2014 si impegna in PIANO C associazione no-profit di cui è presidente che si occupa di favorire la partecipazione attiva delle donne nel mondo del lavoro attraverso l’empowerment, la valorizzazione del talento e della leadership femminile.
Ci racconti di lei
Lavoro da sempre nel terzo settore e in questi anni mi sono occupata di tanti temi. Ho lavorato i primi anni nella cooperazione internazionale e ho viaggiato molto. E’ stato un periodo fortemente formativo, poi ho deciso di cambiare perché avevo bisogno di misurarmi con un’organizzazione che lavorasse in Italia, che si misurasse con le sfide sociali che ci riguardano e che superasse la pretesa di andare altrove a spiegare agli altri come costruire il proprio “sviluppo”, crescere e fare democrazia. In Italia ho iniziato a lavorare su tematiche che riguardavano la nostra società: i diritti delle donne, l’educazione alla cittadinanza, la globalizzazione e poi i diritti di cittadinanza e l’intercultura, il lavoro e lo sviluppo locale.
Poi ho avuto le mie due bimbe. La prima è arrivata dopo un lungo percorso ed è stato un passaggio molto importante per la mia vita personale, ma anche professionale. Mi è stato un po’ stretto l’ambiente di lavoro dove ero. Avevo un contratto precario e nonostante fosse un’organizzazione del terzo settore non mi sono sentita tutelata e accolta nella mia maternità. Ho avuto una gravidanza complicata che ha richiesto che mi mettessi a riposo da subito, mentre ero in maternità è scaduto il contratto a progetto e questo sembrava non essere un problema di nessuno: mi sentivo invisibile con le mie esigenze dopo tutto quello che avevo seminato. A quel punto ho incrociato PIANO C che stava nascendo. All’inizio era uno spazio di coworking, con scrivanie condivise e uno spazio baby flessibile dove lasciare il proprio bimbo mentre si lavora. Io ho iniziato a sviluppare al suo interno un filone associativo che affiancasse al business del coworking un progetto sociale di supporto a donne disoccupate, male occupate o con un desiderio di cambiamento. Donne che avrebbero voluto usare il coworking e i suoi servizi di conciliazione ma che non potevano farlo perché un lavoro non lo avevano più e si trovavano da sole nell’affrontare la difficile sfida di rendersi di nuovo visibili al mercato del lavoro soprattutto per esempio dopo un’assenza dovuta a una maternità. Donne con profili di valore e storie professionali interessanti che cercavamo di rientrare nel mondo del lavoro; ma non sapevano da dove partire e non trovavano servizi e interlocutori in grado di supportarle. Per queste donne era forte anche il tema della solitudine e della mancanza di una rete. Mi è sembrato che tutti i puntini si unissero e tutto quadrasse con la mia vita, con quello che vedevo e che mi sembrava urgente, con quello che mi stava succedendo come professionista e come donna e con le mie competenze: sapevo sviluppare progetti sociali, competenze che in quel luogo non c’erano e che potevano fare la differenza.
Poi la vita ti sorprende e mentre iniziavo la grande sfida di Piano C sono inaspettatamente rimasta incinta della mia seconda figlia, l’altra mia figlia aveva 10 mesi, tutto insieme! Ricordo che è stato uno dei momenti in cui ho sentito su di me lo sguardo che ha il mondo sulle donne che vogliono accettare delle sfide. E ricordo che persone insospettabili mi dicevano: ma sei sicura? Ti licenzi dall’altro lavoro? Cominci un progetto imprenditoriale nuovo con una figlia piccola? E mi ricordo che mentre mi facevo io stessa queste domande di colpo ho pensato: ma ad un uomo di 38 anni, in attesa della seconda figlia, nel pieno della propria vita, capace, con un’ambizione, avrebbero detto “rinuncia!”? No, non lo avrebbero mai detto, lo avrebbero spronato a impegnarsi e ottenere quello che desiderava!
Cosa diceva a sé stessa mentre gli altri le instillavano dei dubbi e cosa ha fatto?
Io avevo una voglia matta di buttarmi in questo progetto, tra l’altro ero un po’ frustrata da dove venivo, volevo cambiare e avevo bisogno di nuove sfide. La prima cosa è stata cercare delle alleanze in famiglia, ne ho parlato con il mio compagno dicendo “ho un’opportunità professionale che se colgo avrà una conseguenza su tutti noi ed io ho bisogno che tu stia dalla mia parte. Sto andando incontro ad una dimensione imprenditoriale che io non potrò controllare e mi chiederà tanto impegno”. Il fatto che io volessi essere una mamma faceva parte di un progetto comune ed è stato naturale parlarne con lui per trovare insieme una soluzione che mi permettesse di tenere insieme queste due scelte entrambi importanti della mia vita: le mie bambine e un progetto professionali in cui credevo molto. Per i primi periodi sono stata una testimonial perfetta del progetto e la mia seconda bambina è nata ed ha vissuto in pieno questa esperienza. Stavo vivendo sulla mia pelle quello che volevo trasmettere alle altre donne. E una delle cose che suggerisco a tutte le donne che incontro e di parlare dei propri progetti e delle proprie aspirazioni in primis in famiglia! Iniziamo a cercare gli alleati in famiglia, perché forse ne abbiamo più di quanto immaginiamo; a volte non ci autorizziamo a parlarne, non facciamo le domande giuste, non diciamo “io desidero questa cosa!”. Abbiamo la sindrome del più sopporto più valgo e incassiamo anche ciò che non ci corrisponde e ci allontana dai nostri obiettivi personali e professionali senza provare nemmeno a aprire un dialogo.
E’ stato poi importante avere un’organizzazione che accogliesse, comprendesse e valorizzasse il fatto di essere incinta e mamma di una bimba piccolissima e questo è stato importante: un’organizzazione che mi vedeva anche in questo ruolo di leadership diversa, con altre esigenze.
La mia bimba è nata a giugno e a settembre sono tornata in ufficio in modo graduale, in modo armonico, giusto per me, per la piccola e per il mio team e sono riuscita a tenere insieme le due cose che in quel momento per me avevano grande valore. In concomitanza con la nascita di Adele sono nati i primi percorsi di supporto alla riprogettazione professionale delle donne. Sono iniziati percorsi principalmente di gruppo perché il tema della solitudine era pervasivo e trasversale a tutte le storie professionali, a tutte le condizioni socioculturali: riguardava tutte le donne in quella specie di frattura biografica che si crea, spesso, purtroppo tra le scelte personali e le scelte professionali. Una solitudine in cui le donne un po’ si adattano, spesso rinunciano a priori senza autorizzarsi ad esplorare. Ed effettivamente la dimensione della comunità ti ispira, ti dà energia e ti apre opportunità.
Quindi nasce Piano C. Di cosa si tratta?
Se devo sintetizzare Piano C è sicuramente un’associazione che offre formazione per la riprogettazione professionale ma è anche una community di donne, le più varie nei percorsi di vita e professionali. Per esempio donne non necessariamente madri e il tema della maternità non è l’unico detonatore per l’insoddisfazione professionale. Noi incontriamo spesso donne over 50 che iniziano a fare un bilancio “ma io a quante cose ho rinunciato? Forse ho ancora un pezzo di strada per fare qualcosa che mi piace e che desidero” e anche loro sentono un clima intorno che le spinge a rinunciare.
Questa dimensione della Community ha attraversato tutti questi anni di Piano C: al centro c’è il talento femminile e in questi sei anni potrei elencare le storie di tantissime donne con curricula e percorsi umani e personali di grande ricchezza eppure fuori dal mercato del lavoro, che mi hanno una sensazione di incredulità e rabbia per questo paese non vede e spreca questo talento. Non stiamo parlando di persone fuori dal mercato del lavoro per le quali la disoccupazione è una tra le tante aree di vulnerabilità e che si rivolgono ad altri servizi, ma parlo di quella quantità di donne, diplomate, laureate con master, in gamba, preparate, ma inspiegabilmente fuori dal mercato del lavoro o male occupate con un lavoro al di sotto delle loro capacità e aspirazioni, discontinuo, precario, sottopagato.
Una delle cose che facciamo a Piano C e che secondo me è potentissima è superare questa dimensione dell’invisibilità e dell’autolimitazione. Le donne hanno spesso profili cosiddetti ibridi, percorsi di carriera meno lineari, intermittenti e siamo anche meno educate e formate dei maschi ad arrivare al mondo del lavoro tenendo in mente una traiettoria di carriera. I maschi sono più attrezzati in questo: entrano nel network giusto, programmano gli spostamenti e i cambiamenti. Le donne inoltre hanno anche periodi di assenza dal mondo del lavoro per es. per le maternità o per carichi di cura che frammentano ancora di più i percorsi.
Noi offriamo formazione di vario tipo. Gratuita grazie al finanziamento di aziende, di enti pubblici, di fondazioni e anche formazione a pagamento verso anche quelle donne che hanno voglia di cambiare lavoro e di investire sul proprio sviluppo di carriera. L’idea è dare un metodo che ti serve nel tempo per gestire un eventuale nuovo cambiamento. Senza averne paura. Anche questo tema è più difficile per le donne perché sono un pò conservatrici e il lanciare il cuore oltre l’ostacolo è una competenza più maschile (o comunque più incentivata nei maschi); invece, il cambiamento può essere una esperienza meravigliosa, un percorso di crescita, va progettato. E questo il messaggio che vogliamo passare.
Quindi il nostro obiettivo è aiutare le donne a fare emergere il valore di quel talento un po’ invisibile, mappare quel talento e quelle competenze che non provengono solo dal lavoro e che le donne hanno sviluppato i altri ambiti della propria vita, così come le passioni, gli interessi, le esperienze di vita; questo per valorizzare l’unicità di ogni persona, non cercare l’omologazione e far emergere la propria proposta di valore, unica e irripetibile. Autorizzare le donne a cercare il lavoro giusto per sé.
Cosa intende quando dice autorizzare le donne a cercare il lavoro giusto per sé?
Non accontentarsi, dare voce ai desideri e ai sogni, provare ad immaginare che il lavoro che stai progettando e cercando è proprio quello che mette a frutto al meglio il tuo talento e che è giusto per te. Tutto questo va messo nel mondo e col mondo dovrà confrontarsi. Quindi non è un invito all’utopia, ma a qualcosa che parte da una domanda chiave: cosa vuoi fare accadere nel mondo con il tuo lavoro? Poi il passaggio successivo è interrogare e studiare il mondo del lavoro, luogo dal quale le donne spesso rifuggono per timore o per inesperienza, soprattutto quando sono da un po’ fuori dal mercato: fare networking, confrontarsi, chiedere e non nell’ottica di “elemosinare un lavoro” ma come proposta diretta per comprendere meglio, per esplorare i settori di interesse, per scoprire mestieri e competenze nuove. Devi autorizzarti ad avere voce, devi autorizzarti a dire ascoltami perché valgo ed inoltre così generi networking perché ti presenti, ti rafforzi e ti alleni nel raccontare il tuo valore.
Questa parte che noi chiamiamo della raccolta informativa è difficilissima, soprattutto, come dicevo, per quelle donne fuori dal mercato del lavoro da un po’ di tempo. E qui Piano C ha un ruolo chiave. Quello anche di sperimentare in termini di valori un’idea di networking “intriso di sorellanza” che parta dall’idea che dalle altre donne puoi trovare un’ispirazione ed un supporto. Poi si fa sempre in tempo a scoprire quella con la quale non hai niente da spartire troppo diversa da te. Non voglio fare dell’ecumenismo per cui per forza in quanto donne siamo sempre tutte allineate e ci vogliamo bene. E ci sono anche tanti modelli maschili introiettati dalle stesse donne che dividono e che a volte rendono più difficile esercitare uno spazio di rete, di sorellanza. Anche questo è il lavoro che facciamo con Piano C nell’accompagnare a sviluppare competenze di networking e una sorellanza umana e professionale. Nascono anche delle relazioni molto belle, persone che poi collaborano con noi.
Questa modalità di fare rete la ritrovo moltissimo in InclusioneDonna, la rete di oltre 60 associazioni della quale facciamo parte come Piano C e che lavora per promuovere la parità di genere nel lavoro e nella rappresentanza: anche quando succedono cose difficili o emergono differenze di opinioni, l’obiettivo comune resta comunque sempre chiaro: lavorare insieme in modo inclusivo dalla parte delle donne.
Questo tema della sorellanza e del fare rete mi sta molto a cuore a livello associativo, ma anche nella vita quotidiana: io ho tre sorelle, due figlie femmine, a Piano C siamo un team di 7 donne e cerco di impegnarmi ogni giorno per esercitare questo spazio di condivisione e supporto reciproco
Lei ascolta le storie di tante donne. Qual è il file rouge di queste storie?
Se è vero che da una parte è forte il tema dell’invisibilità, della sensazione di essere un talento sprecato e che rischia di spegnersi. Dall’altra ugualmente ritrovo in tutte queste storie un desiderio di mettersi in gioco fuori dal comune, che spesso ha solo bisogno di trovare coraggio. Noi spingiamo le donne a fare un lavoro su sé stesse molto impegnativo perché è un percorso di riprogettazione professionale, quindi è necessario smontare e rimontare la propria storia professione e le proprie competenze, ascoltare l’esterno e ascoltare sé stesse e se devo pensare ad una cosa che in questi anni mi ha sorpreso tantissimo è la grande voglia di mettersi in gioco con desiderio e determinazione. Si tratta di donne capaci che vogliono un’opportunità per dimostrare il proprio valore. Questo, secondo me, è un messaggio più ampio anche per il paese: la nostra economia è crisi e va rimessa in moto e c’è un nutrimento pronto che non va sprecato.
In che modo Piano C contribuisce ad alimentare questo nutrimento?
Chi si avvicina a Piano C trova un metodo registrato che si chiama work design utile a lavorare sul proprio progetto professionale ed è un metodo che ha alcuni capisaldi, in primo luogo il self empowerment.
Poi c’è il tema del design thinking. allenare la nostra competenza progettuale, analizzare i mattoncini che hai per costruire il tuo progetto facendo dei prototipi, dei test, che permettono di aggiustare il tiro e riprogettare se necessario. Questa dinamica è molto proficua. Poi c’è la dimensione del gruppo e dell’ingegnosità collettiva, l’idea che insieme non solo si sta vicine le une alle altre ma nascono anche nuove idee, nuove opportunità.
Questo percorso infatti si fa in gruppo: costruiamo i gruppi facendo delle selezioni (non sul merito ma sulla fase della vita in cui le partecipanti si trovano) perché spesso abbiamo molte più richieste rispetto ai posti disponibili. Per affrontare questo percorso è fondamentale essere pronta a mettere l’energia necessaria nel proprio progetto e, se per mille motivi, si è in un momento in cui è indispensabile rinforzarsi per magari ricostruire e ricomporre eventuali fratture nella propria vita, suggeriamo di attendere e magari avvicinarsi al metodo successivamente. Ma la nostra selezione è utile anche per costruire dei gruppi forti, perché la dinamica di gruppo è fondamentale. Le strade possono essere la candidatura a percorso gratuito o a pagamento o ancora si può iniziare con delle micro- esperienze Piano C: un workshop formativo, alcune micro-consulenze. Se hai a cuore il tuo sviluppo professionale, vuoi metterti in rete con altre donne e vuoi crescere come professionista puoi trovare risposte in varie fasi della tua vita. I quattro filoni di formazione che offriamo sono: Cambia-Cerca-Cresci-Crea.
CAMBIA. Per chi vuole cambiare il punto di vista su di sé e sul mondo del lavoro, riscoprire il proprio talento, rafforzare l’autostima e individuare le proprie potenzialità ancora inespresse.
CERCA: per chi vuole trovare il lavoro giusto per sé e valorizzare a pieno il proprio talento, capitalizzare le proprie risorse, analizzare il mercato del lavoro e definire il proprio progetto professionale
CRESCI: per chi vuole dare nuovo slancio al proprio percorso professionale, senza rinunciare alla vita personale, mettendo a fuoco i propri bisogni e aspirazioni, condividendo la propria esperienza in una community e crescendo come professionista.
CREA: per chi ha un progetto che vorresti realizzare o sta pensando ad una carriera come libera professionista vuole acquisire strumenti utili, progettare la propria idea e testarla insieme a noi per verificarne l’efficacia
Quest’ultimo caso, che ci capita molto spesso, è il famoso “sogno nel cassetto”. Un cassetto mai aperto. Con il senso di insoddisfazione del non aver nemmeno provato a realizzare il proprio sogno. E’ ovvio che tirarlo fuori vuol dire anche prendere consapevolezza che magari non funziona o che va modificato e noi lavoriamo anche una parte motivazionale per mettere le mani in quel progetto e provare a dargli vita, a dargli forma. Tra il 2017 e 2018 abbiamo fatto una sperimentazione in cui è stata coinvolta con un finanziamento della fondazione Cariplo l’Università Cattolica con un processo di valutazione di impatto. E’ stato molto interessante avere questo feedback anche perché qualificato. A 6 mesi dalla conclusione del nostro percorso il 75% dei partecipanti aveva trovato un lavoro. Aveva trovato una strada da esplorare.
Ha realizzato il suo progetto dott.ssa Borri?
Si, direi di si. Perfettibile e diverso da come lo avevo immaginato. Sono molto soddisfatta e tra l’altro questo periodo faticoso della pandemia lo abbiamo usato in modo generativo perché abbiamo investito su tutta la parte digitale. Questa dimensione laboratoriale della nostra formazione rendeva la dinamica di gruppo e di aula molto importante e il passaggio all’on-line ci lasciava delle perplessità. Invece abbiamo studiato e testato degli strumenti per facilitare gli apprendimenti peer to peer e dinamizzare anche le aule virtuali. Così questa fatica si è trasformata in una grande opportunità per aumentare il nostro impatto e grazie al digitale raggiungere molte più donne in tutta Italia. Anche perché per fortuna in questi ultimi mesi questo tema del femminile è diventato molto più attuale. Da una parte è un bel segnale importante, finalmente se ne parla! dall’altra parte si fa fatica a fare emergere la qualità di quello che fai, in modo strutturale e davvero incisivo, per cambiare davvero la condizione delle donne nel nostro paese. Ma sono convinta che se uno presidia la qualità di quello che fa la propria traiettoria emerge.
Essere cresciuta senza mamma fin da piccola in che modo può aver contribuito a realizzare i progetti che sta gestendo.
Dopo aver perso la mia mamma in Argentina, ho avuto, da quando sono arrivata in Italia, una mamma adottiva – da tempo mia mamma a tutti gli effetti – e poi le mie sorelle e le mie figlie ed è come se vedessi un filo rosso di donne che una dopo l’altra mi sono state accanto per diventare la donna che sono, per fare le scelte che faccio, per essere la madre che sono. Mi da tanta forza e tanta fiducia ed è un modo per trasformare un dolore e una perdita in una spinta vitale. Bisogna anche impegnarsi ed essere fortunate negli incontri: io ho incontrato delle persone speciali nella mia vita. Lo considero un po’ un messaggio di speranza: se si mette cura nelle relazioni, si è generosi la vita riesce a vincere la morte.
E penso che questo sia un apprendimento femminile, l’essere generativi, che può essere una capacità anche degli uomini, che ci fa sentire più capaci di affrontare le sfide e le fatiche, di trasformare la propria vita e renderla davvero il posto dove si vuole vivere. E questo è il filo rosso della mia storia.