Per quanto catastrofico, un periodo come quello che stiamo vivendo a causa del corona virus può essere foriero di moltissimi insegnamenti e spunti di riflessione per analizzare nuovi fenomeni e guardare a fenomeni noti ma da differenti punti di vista. Per questo motivo, e con lo spirito ci cercare sempre un lato positivo, nelle prossime settimane ho deciso di “usare” questa rubrica per riflettere su alcune lezioni apprese o riapprese e per condividere alcune considerazioni maturate in questi giorni così inattesi.
La prima da cui vorrei partire è l’importanza dei dati in termini di disponibilità, confrontabilità e utilizzo. Chi come me viene dal mondo aziendale e magari si trova ad operare su più paesi, business o aree avrà certamente sperimentato già la frustrazione di partecipare ad una review in cui i dati non “si parlano” e pertanto poche decisioni possono essere prese senza un alto livello di aleatorietà. Chi poi si è trovato, volente o nolente, ad implementare sistemi di gestione integrata ha potuto anche apprezzare quanto in numeri, a dispetto della loro oggettività intrinseca, si prestino comunque a interpretazioni e distorsioni figlie di chi li maneggia.
Senza voler fare troppa filosofia sull’argomento, la situazione attuale mi ha ricordato prepotentemente che se da una parte oggi abbiamo la grandissima opportunità ovvero quella di avere una enorme capacità di processare ed elaborare dati in tempi estremamente ridotti, dall’altro lato la loro utilità diminuisce drasticamente se queste operazioni non vengono fatte in maniera rigorosa e standardizzata. Si può stare ore e ore a dibattere se nelle statistiche del corona virus vanno considerati o meno tra i deceduti quelle persone che avevano già altre patologia pregresse. Ciò che però questa situazione ha reso evidente è che può essere più importante avere un criterio unitario, seppur imperfetto.
Ottieni ciò che misuri. Ultimo ma non ultimo, gli americani hanno un modo di dire che mi è sempre piaciuto e che spesso ho utilizzato in ambito lavorativo: “you get what you measure” (trad.: ottioni ciò che misuri). In altri termini, se non misuri in quanti secondi sei in grado di correre i 100 metri difficilmente migliorerai i tuoi tempi. Avere a disposizioni dati solidi e confrontabili è solo il primo passo per affrontare una situazione complessa – per restare nella metafora podistica significa avere un buon cronometro. Tuttavia dopo aver fatto ciò bisogna identificare i corretti termini di paragone e gli indicatori giusti (per restare un po’ esterofili: KPIs – Key Performance Indicators; trad.: indicatori chiave della prestazione). Come si può dare una valutazione alla propria prestazione senza conoscere il record mondiale sui 100 mt piani e senza darci un obiettivo o confrontarci con altre persone a noi simili (per eta’, livello, etc)?
A mio avviso in questi mesi si è vista una preoccupante disomogenità nella raccolta, interpretazione e utilizzazione dei dati a disposizione e nonostante fosse evidente e chiaro dal primo secondo quanto il problema del covid fosse globale e che le esperienze di chi lo affrontava potevano essere basilari per la presa di decisioni di chi si sarebbe confrontato con questa situazione più tardi. Abbiamo visto invece il ripetersi di innumerevoli errori e, sempre a mio avviso, una buona parte di questi sono imputabili proprio ai numeri e a come sono stati maneggiati.
L’insegnamento che mi porto a casa è il seguente: in futuro dedicherò più “entusiasmo” e soprattutto risorse al cosiddetto data crunching nonostante non sia la mia area preferita. Più importante però, è la speranza che a tempo debito queste lezioni verranno approfondite da quegli organismi che più possono trarre spunti di miglioramento (come ad esempio l’OMS).